L'ONDA DELLA MEMORIA ACCENDE LA NOSTALGIA

COLTIVA LE TUE ORIGINI DENTRO DI TE

Alla mia  Atri con orgogliosa genuina fierezza

In viaggio da Bari diretto a Bologna, alla vana ricerca di una improbabile soluzione per lenire le sofferenze della mia dolce cara Emiliana, sfreccio in treno davanti al mio paese natale, Atri, e mi appare sullo sfondo, come i santi, dentro una campana di vetro chiamata finestrino. In quella scatola trasparente e sfuggente c’è tutto il mio mondo d’origine, le persone, i luoghi,  gli anni più cari. Lontano si staglia nitido lo svettante campanile della Basilica  Cattedrale dall’alto del quale, ancora ragazzo,  mi sono tante volte divertito a godere dell’ottima visuale panoramica, oltre a toccare i severi bronzi ed ammirare la città sottostante con le varie torri, in lontananza il Gran Sasso  - vista oggi godibile anche dal Belvedere  Vomano, una volta chiamato  “ li ripe“, e più da vicino strisce di mare all’orizzonte con la riviera adriatica. Stento a riconoscere per la distanza e nella velocità del passaggio i vari dettagli. Ovunque abbozzi di vita, distese di vigneti e uliveti che con la loro vastità dominante cambiano luci e colori di stagione in stagione. Non avevo mai notato che Atri, vista da lontano, si vedesse nettamente posta su un colle tripartito da due piccole valli.  Intravedo tante altre sagome confuse e , improvvisato sciamano,  mi situo in questo paesaggio ed entro nella sua inerzia.

Il  paese natale non è il luogo dove resti pietrificato una vita e nemmeno il luogo che abbandoni e cancelli;  ti resta per sempre, irraggiungibile ma sempre vicino nella sua lontananza.  Quella cartolina che scorre al passaggio è la cassaforte, lo scrigno dove sono depositati  i tuoi tesori, viventi  o sepolti, la cassetta di sicurezza dei tuoi gioielli immateriali, ma non privi di corpo. Quella cartolina coltiva un paese dentro di te, un posto che ami, dov’è la tua origine e che ho dovuto lasciare. Allontanarsi  dal luogo della propria origine non ha un valore di per se stesso, se non si accetta che il viaggio comporta un misurarsi con l’ignoto e l’idea del ritorno. Ulisse, infatti, sfida l’ignoto ma sogna di ritornare a casa. Quel paese poi  torna, nei sogni, nelle pause,  nei lampi del viaggiatore  che sfreccia veloce davanti ai suoi primi vent’anni; risale ai secoli addietro da cui proviene e risale ai secoli postumi  in cui tornerà  in quel posto, in mezzo ai suoi cari, e sarà terra fra i suoi conterranei. 

Il  proprio paese non è una coordinata geografica, ma un luogo dell’anima, il centro del mondo, come è sempre stata la propria terra nelle culture contadine, fondate sulla sapienza popolare, sulle superstizioni, sui miti, sulle tradizioni, sui riti, sui valori stabili. Un centro che, però, viene celebrato nella consapevolezza che esso è ovunque, che tutti, destinati all’effimero ed alla precarietà della vita, anelano al radicamento in quel centro, fra la pulsione alla libertà, fragile e tremante, delle foglie, e quella della stabilità rassicurante delle radici sotto terra.

Non intendo qui ripercorrere lo splendore passato di Atri nella sua gloriosa storia trimillenaria, narrata sulle pietre e poi sui libri  (che io a suo tempo ho letto con attenzione e che riflettono profonde conoscenze storiche  ricostruite con acume e lucidità, quasi voce narrante) da tanti illustri e colti  personaggi  che con cura letteraria, lontana dal minimalismo straccione e  con rigorosa  indagine documentaria ci hanno fatto conoscere non soltanto   la sua storia trimillenaria, ma anche tutto ciò che ha determinato la sua celebrità.  Sento ancor oggi  gli echi di queste letture. La memoria storica deve essere mantenuta viva e sono i giovani che devono  proteggerla con lo studio e con una ricerca appassionata sulle vicende e sugli uomini del passato, anche quale contributo al più capillare, esteso e meritato apprezzamento della Città: “non sapere che cosa è avvenuto prima di noi è come rimanere sempre bambini “ (Cicerone).

Anche quest’estate sono tornato al mio natìo loco per trascorrervi un pieno periodo stagionale. Atri s’accende l’estate di tutti i colori dell’iride, brillanti e sfumati l’uno nell’altro; forse è il mio animo, come cristallo di rocca, che riflette questa visione così sublime che può nascere soltanto da una fantasia alterata, un artificio tanto eccitante al  primo approccio del ritorno  quanto appagante nel prosieguo del contatto con  il paese del cuore.

La vecchiaia e la malattia, fra gli infiniti mali, portano anche qualche vantaggio: niente timidezze, ma è ancor più inebriante saper godere anche del limitato  mondo in cui può spaziare lo sguardo, ridotto alle cose vicinissime, come la finestra del mio studio dalla quale godo l’arpeggio degli striduli squittii  delle rondini e la vista di questi straordinari uccelli che dal loro volo radente fanno risuonare altissimo nel cielo il loro canto puro e agile. E tutto questo solleva il mio spirito sopra il dolore, più in alto del destino, invitandoci ad aprire il nostro cuore alla gentilezza ed alla bontà. Mi soffermo ad ammirare e gustare il loro semplice modo di essere, specie all’alba, ad ogni alba quando salutano il nuovo giorno in modo gioioso ed universale, rubando i primi albori.

Dalla finestra del mio studio, che affaccia sulla  via S. Domenico, domino l’intero paesaggio, tutto mi appare inebriante: i tetti d’attorno  (quelli di una volta, i coppi,  “ li pinge” ) come un tappeto grigio steso sotto, offrono uno spettacolo gentile che stride al cospetto degli orridi tetti condominiali della città. Nelle notti insonni,  come si addice ad un vecchio incanutito pensatore, quando le candele del cielo sono tutte consumate e la gioconda luce del dì  procede in punta di piedi, godo l’aria fresca dell’alba, momento magico che segue da vicino lo spuntar del sole lontano sul mare, il nostro mare,  Pineto, la mia spiaggia ormai di un tempo che fu.  Un mare azzurro, tranquillo, infinito e nel lontano, grandi strisce d’argento lo imbiancano, lunghe fino agli estremi orizzonti.

Questi  scenari  mi portano ad immergermi nei ricordi del mio mondo giovanile, mai abbandonato; un mare in cui so nuotare, che è sempre vivo, un mondo sempre vivo anche se a volte si copre di una patina di polvere. E così rifletto sul mio sentirmi  Atriano. E mi accorgo che i profili delle nostre campagne, tutte colline variopinte ondeggianti, sono molto somiglianti a quelli che ho visto in una provincia della Cina. Ed  ho scoperto che il mondo sta tutto in un metro quadrato e, forse, nella mia stessa Atri. Ed ho anche capito cos’è davvero importante nella vita: “approfondirsi dentro di sé “.

In questa mia escursione ideale forse non è del tutto estraneo il ricordo delle meditazioni del grande, acuto e raffinato Marcel Proust, la cui opera “La ricerca del tempo perduto“ si colloca tra i massimi capolavori della letteratura universale. La “petit madeleine“  dentro la quale è  racchiusa la sua intuizione folgorante.  Quel dolcetto burroso a forma di conchiglia imbevuto nel the non è semplicemente un pezzetto di squisita materia,  ma è l’elemento rilevatore che gli mostra finalmente quello che sta cercando: se stesso, il recupero dei ricordi.   Il grande protagonista è il passato; austero e solitario, il tempo alle spalle null’altro chiede se non di essere utile. Non urla. Ma non può fare a meno di risorgere. Sfrutta anche i sogni per farsi ricordare.

In quei momenti  si scende dalla mente al cuore ed è l’unica condizione per collegarci con quel bambino che è in noi. Io, ad esempio, sono figlio del Novecento e non so rassegnarmi alla sua scomparsa:  potrei pensare che il mio attaccamento a ciò che è stato abbia a che fare con la nostalgia della giovinezza. In realtà è qualcosa di più profondo, non facile da definire, una sorta di sindrome della grandezza, la consapevolezza di essersi formato ed aver fatto parte di un’epoca terribile e insieme magnifica, una tempesta di idee e di fatti a petto della quale ciò che è venuto dopo è solo una risacca dove qua e là galleggiano relitti senza vita.  E forse non serve nemmeno  la  “madeleine“ di  Proust  per richiamare alla memoria qualcosa. Rituffarsi nel passato;  quella irresistibile pulsione sollecitata anche semplicemente da una casuale sensazione, come lampo che illumina.

Tutto quello che ho dentro è già tutto descritto nella mia lista, tutto di seguito: foto, odori, suoni, film, un bagaglio del passato pronto ad uscir in ogni momento del presente, davanti ad una persona, a un sorriso, a un’immagine. E così nel catalogo, senza ordine gerarchico,  delle tante minime cose che hanno reso e rendono la mia vita degna di essere  vissuta, ci sono attimi di felicità e piaceri da sottoscrivere: ridere a crepapelle, sia pure con senso rispettoso (chi può scordarsi di ‘Ndonie Cianarde) oppure quel ridere dei giovani per le cose le più insignificanti, piangere al cinema di Mattozzi alla visione del film della triste operetta  “Primavera“  con Jannet  Mc Donald, gettarsi a capofitto in conversazioni senza fine con il caro, compianto  Walter Della Sciucca, mio caro amico e condiscepolo al liceo poi affermato medico a Francavilla Mare; abbracciare, sentirsi  pieni di lancio, lasciarsi trascinare da impulso, ricevere un bel regalo come  fu il piccolo  bel  motorino che papà mi fece avere quale premio della mia pagella zeppa di nove, provare un paio di scarpe nuove, ballare nelle case di amici,   accoccolarsi; quasi un sofisticato sistema di riti che rianima e fa assaporare, gustare un’ancestrale sensazione di felicità, rivivere la più bella stagione della giovinezza, che ci fa uscire dalla nebbia crepuscolare.

Era sale della vita cedere ai piaceri della vita stessa,  mangiare ostriche  e bere un buon bicchiere di vino gelato in riva al mare, come all’epoca di Cerolini, gestore di un albergo stagionale a Pineto in quella bella villa stile veneziano, succhiare liquirizia rubata al camion che la trasportava, mangiare accovacciati con le mani  attorno ad un piatto comune, un caffè al sole  in Piazza del Duomo.  Ma anche commettere piccoli peccati veniali: poltrire a letto il mattino mentre la mamma sbraitava perché era abitudine non consentita, imprecare come un carrettiere, stiracchiarsi.  O apprezzare la natura: l’aria fresca all’alba, raccogliere le more lungo la strada di Villa Bozza o di Silvi, farsi camminare una coccinella sul dito, guardare il fuoco che arde.  Assistere alla processione del Corpus Domini con i drappi alle finestre (Raffaele Ciacavigna, uomo profondamente religioso, ne era il cerimoniere,  fra una bestemmia e l’altra  imprecando contro la sua adoratissima Giulia, sua moglie ), ricordar di aver pianto leggendo “Senza famiglia”.

E ancora tante altre cose, come camminare per strada e sentir all’improvviso  l’odore della Colonia   che usava mamma, sedere al sole in qualche piazzetta del  paese o fare una passeggiata nelle prime ore pomeridiane di aprile nel solatio “sotto le mura“ e godere  dei  primi raggi di sole primaverile, sognare di visitare Machu Picchu di cui mi parlava un cliente di papà, arrossire in classe all’ora di latino  - mia amata lingua maestra - e prendersela con se stessi  per un errore bruscamente fatto rilevare dalla mia eccelsa guida nella materia come fu  il Preside Ronda cui tanto devo della mia formazione culturale umanistica, essere stupendamente felici per qualcosa, anche stupida,  che si è appena fatto in gioventù con i miei fraterni amici Walter Della Sciucca o Mario Appicciutoli e altri che non ricordo. Ed ancora rivivere per una sola volta la meravigliosa, gioiosa, spensierata atmosfera dei carnevali di un tempo che fu, vissuti nel nostro antico Tetro Comunale, con spontanea partecipazione di  tutti, senza distinzioni di classi sociali, con sprizzante, festosa, esaltante esplosione di sana allegria.  E poi il ricco elenco delle feste e sagre popolari che si protraggono fino a tarda sera.

Così scorrono confusamente nella mente tanti altri scenari consueti a noi Atriani, ricordo quelle Bande un po’ rabberciate per qualche piccolo evento, una sorte di sarabanda che girava attorno ad una fanfara, (sette, otto elementi in tutto ), che gridava vendetta al cospetto degli dei della musica, se non fosse stato per un virtuoso bombardino di cui non mi sovviene il nome. Di certo c’era  “Mimì Sargent “ con i suoi piatti e forse Glauco Marconi: squarci di vita che tende ad idealizzare l’infanzia !

E poi le gaudenti riunioni conviviali, oggi celebrati come in una corte palatina negli agriturismi, quasi un culto dionisiaco, nelle quali si vive una sensazione di liberazione, di semplicità ed anche di energia; un vortice di serena allegria che si alza verso il culmine della gioia. I sublimi effluvi delle nostre pietanze che colmano di letizia e che però non mi ispirano sensi di ammirazione giacchè, mentre io sono a Roma, tutto si svolge quasi sempre in mia assenza. Ed ancora il Presepe al cui rito tutti si apprestavano dal giorno dell’Immacolata, maestro del rito era Andrea Giani, mio parente e personaggio assai noto in paese. Tutto un mondo sano, semplice di cui si può diventare prigionieri, come felicemente accade a me. Forse in ciò sta il fascino: id quod maius cogitari  nequit.

Queste le pulsioni che si sviluppano negli angoli più reconditi della mia psiche, nelle caverne oscure della mia personalità, nei tratti emotivi congeniti. Sono un vecchio incanutito pensatore che avverte la propria fragilità e che talvolta si percepisce come uno scomodo convitato di pietra, quando arrivati in un’età in cui guardando il futuro non si vede altro che il proprio passato, allora forse apprezzare le cose che non siamo più abituati neanche a guardare, può aiutarci a vivere meglio, e, chissà, a farci ritrovare la felicità che tutti conosciamo e, malgrado ciò, ci  sfugge.

Non posso concludere senza rivolgere un memore, affettuoso pensiero ai miei genitori, mamma “la mastra Giani” e papà,  “lu nutàr Carta”, che mi hanno lasciato un’immensa eredità d’affetti  e mi hanno insegnato ad essere semplicemente un galantuomo.   

Alfio Carta