QUANDO SANT’ANTONIO ERA PIU’ VENERATO DI SAN FRANCESCO

 

In un passato non tanto lontano, nelle nostre terre, era molto più venerato e conosciuto S. Antonio di Padova che il fondatore del suo Ordine, S. Francesco d’Assisi. La devozione popolare ha suscitato più processioni e feste per il Taumaturgo di Lisbona che per il Santo Poverello. Nessuna discriminazione, perché in Cielo non ci sono e non ci saranno più rivalità.

Una volta, vita, morte e miracoli di S. Antonio si conoscevano molto bene. In Atri, quando era la festa del 13 giugno, la sacrista di S. Francesco, Carmela Di Francesco, per tenere buoni i ragazzi, mentre veniva celebrata la Messa all’altar maggiore, con la distribuzione del pane, benedetto alla prima celebrazione, raccontava qualche aneddoto della vita del Santo di tutto il mondo. Sapeva incantare i bambini, con la sua sagoma magra e piena di sorriso dove traspariva la tenerezza delle radici. Raccontava di S. Antonio bambino, quando a tre anni nella chiesa di Lisbona gli comparve il demonio. Il piccolo Fernando Buglione, appartenente all’aristocrazia lusitana con il sogno di cavaliere, tracciò sul pavimento un segno di croce, e il maligno fuggì via.

Il povero S. Francesco, almeno fino alla prima metà del XX secolo, non godeva di grande devozione del popolo. Addirittura era confuso con l’omonimo di Paola, il religioso calabrese che attraversò servendosi del mantello, lo stretto di Messina, perché il barcaiolo si era rifiutato di trasportarlo. Fece come Gesù che camminò sulle acque. A Fara S. Martino, mio nonno Santino che mi guarda dal Paradiso mi raccontava che nella chiesa della Madonna delle Grazie c’era una statua di S. Francesco. E io, pensai in un batter d’occhio a S. Francesco d’Assisi.

Nel 1991 gli zii di Fara, zio Raffaele e zio Eugenio Ricciuti, regalarono al nonno una videocassetta (c’erano ancora i VHS), per fargli rivedere il paese natale ed entrarono in diversi edifici sacri. Nell’antica chiesa mariana, dirimpetto alla Collegiata di S. Remigio, la telecamera inquadrò il famoso S. Francesco, ma era S. Francesco di Paola. Messo quasi in un cantuccio dell’aula liturgica, era giustificata la confusione con il Poverello, perché portava un saio marrone scuro con il cappuccio, ma aveva la barba corta e grigia e il bastone alla cui estremità è il cartiglio con l’emblema dei Minimi.

Zio Eugenio chiamò in causa zia Jole, la prozia che viveva con noi in Atri, perché avrebbe voluto la spiegazione di quel Santo, incontrato chissà quante volte nella chiesa della Madonna delle Grazie. Ci rimasi un po’ male, perché avrei tanto voluto un’immagine a tutto tondo del Santo di Assisi a Fara. Fu un fatto telepatico perché Zio Raffaele una decina d’anni dopo portò la mia famiglia nella chiesa, un po’ fuori Fara, della SS. Trinità. Era il ritiro dei Cappuccini Terziari dell’Addolorata, e qui c’era davvero la statua di S. Francesco d’Assisi.

S. Francesco ebbe il suo primo exploit nella devozione contemporanea, quando nel 1939 Pio XII lo dichiarò Patrono d’Italia. Papa Pacelli era legato personalmente al Santo più vicino al cuore di Cristo, perché suo fratello era terziario francescano e un suo nipote, il Prof. Franco Teza, morto nel 2010, abitava nei pressi di Assisi. Nel 1962 S. Giovanni XXIII inaugurò il Concilio Vaticano II con il pellegrinaggio “ad corpus Beati Francisci”. Il Beato Paolo VI avrebbe tanto voluto visitare da Pontefice la città di Francesco, ma non gli fu possibile. In Umbria visitò soltanto Orvieto, all’inizio del ministero petrino, e quindi non fu presente nel cuore della regione del Poverello.

Il più forte exploit è stato con S. Giovanni Paolo II, con l’incontro interreligioso il 27 ottobre 1986, alla vigilia della caduta del muro di Berlino e della fine dell’era atomica. Da Hiroshima a quel giorno di novembre, si parlò di Guerra fredda. E ora con Papa Francesco, la figura dell’omonimo Santo ha avuto una netta ripresa e, se vogliamo, una rivincita sul Santo di Padova.

Negli anni ’60 e ’70 la devozione a S. Antonio in Atri si affievolì, sia per il ricordo della guerra sempre più sfocato con il benessere trionfante, sia per i contatti con la città di Padova e il Nord-Est poco frequenti. Mentre i chietini e i pescaresi facilmente si trasferivano nel Nord per lavoro nel pubblico impiego, grazie a politici locali, con la speranza del ritorno nella terra natia certamente, ma a volte anche con la prospettiva di rimanerci stabilmente, gli atriani e gli abitanti dei paesi vicini, soprattutto grazie all’ospedale e al suo indotto, sono rimasti in loco.

Nel 1965 veniva messa l’Università in Abruzzo, dislocata tra Chieti, Pescara e Teramo, e Padova fu sempre meno scelta per gli studi dopo le superiori. Per le città costiere la situazione era diversa, perché i collegamenti erano migliori, grazie al trasporto su rotaia.

A volte si ha l’impressione che S. Antonio è stato un testimone della fede un po’ rimosso, perché siamo scalfiti dal suo esempio. Facciamo presto ad innamorarci di S. Francesco e della sua povertà, ma forse guardiamo ad un aspetto consegnatoci dal cinema, dalla poesia e dalla tradizione. Antonio, oltre alla povertà, evangelicamente abbracciata e sapientemente vissuta e testimoniata, ci invita a lavorare su altri aspetti della vita in cui possiamo e dobbiamo maturare.

Quella gamba miracolosamente riattaccata al giovane, penitente del Taumaturgo di Lisbona, è un invito a riallacciare i rapporti con le persone che abbiamo accanto, alla riconciliazione con chi ci ha offeso o umiliato, al rispetto e alla gratitudine verso quanti, anche nel lontano passato, ci hanno fatto del bene. “Membra resque perditas”, è incastonato nel “Si quaeris miracula” che si cantava pure nella chiesa di S. Francesco in Atri e ora, purtroppo, non si canta più, non richiama soltanto il portachiavi perduto o il portafoglio smarrito, ma il senso dell’amicizia e della vicinanza al prossimo che, per dirla con un altro Antonio, Don Tonino Bello, è la “tovaglia di convivialità, più importante di quello che ci sta sopra”.

SANTINO VERNA