TOTEMAJJE DUE: UN NUOVO LIBRO DI EMILIANO GIANCRISTOFARO

L'ANIMA, I COLORI E IL PROFUMO DELL'ABRUZZO RACCONTATI CON ARTE E PASSIONE

 

E’ stato recentemente presentato all’auditorium “L. Petruzzi” di Pescara “Totemajje due: cultura popolare abruzzese” di Emiliano Giancristofaro (Rivista Abruzzese, pp.469, Euro 18). Con l’autore hanno presentato il volume gli antropologi Franco Cercone e Adriana Gandolfi e il Dott. Ermanno De Pompeis, il cui nome è legato al Museo delle Genti d’Abruzzo.

Emiliano Giancristofaro, 76 anni, lancianese, è docente di storia e filosofia nei licei, anche se non ha usato molto le suddette discipline per la professione di antropologo. Nel 1964 ha raccolto l’eredità di Francesco Verlengia nella direzione della “Rivista Abruzzese”, affidato ora alla figlia Lia, anche lei antropologa, assente alla presentazione, perché appena tornata dall’UNESCO di Parigi. Il docente frentano ha realizzato numerosi documentari per la RAI, quando i programmi regionali erano all’ordine del giorno. Ha lavorato pure per le TV commerciali abruzzesi e celebri rimangono i lavori sui serpari di Cocullo, il lupo di Palombaro e Pretoro, le farchie di Fara Filiorum Petri e la campana di S. Nicola a Pollutri. Si è occupato pure di emigrazione.

Amico di Atri, il Prof. Giancristofaro, vi è arrivato più volte per seguire la tradizione dei “faugni”, poco attenzionata dagli antropologi della prima ora come De Nino, Finamore e Pansa, i cui riflettori hanno puntato maggiormente la kermesse di Fara Filiorum Petri. Il docente frentano ha messo in relazione i fuochi atriani con il Viso Adorno di Torino di Sangro.

La presidenza di “Italia Nostra” per l’Abruzzo l’ha reso un ottimo interlocutore della città dei calanchi, perché dal 1987 l’associazione fondata da Giorgio Bassani (peraltro titolare della sezione di Atri, dal 2002) forma un nesso inscindibile con la cittadina. Sarà forse una sorta di rimorso collettivo per gli infelici interventi urbanistici come gli sventramenti del periodo postbellico, sarà la maggiore consapevolezza per i tesori artistici e ambientali, sarà non so cosa, ma “Italia Nostra” è una voce apprezzata e ascoltata dalle conferenze nelle varie sale per la cultura (e non sono poche) in Atri alla casa di Pino Perfetti, amico del professore lancianese.

Il libro segue quello del 1978 ed è passata tanta acqua sotto i ponti. Un esempio per tutti, la festa di S. Domenico Abate, celebrato a Cocullo il primo giovedì di maggio (la memoria liturgica è il 22 gennaio, ma i rigori invernali particolari nell’Abruzzo montano non permettono processioni esterne), dal 2012 si svolge il primo giorno del mese mariano, per permettere la partecipazione a tanti lavoratori. E’ un modo alternativo per celebrare il primo maggio.

Il nome “Totemajje” è il cibo rituale del Calendimaggio, quando dalla dispensa del contadino venivano tolti tutti i rimasugli delle provviste invernali e avveniva un pasto collettivo, portato ai poveri che si dividevano in due categorie: i poveri propriamente detti e quelli vergognosi. C’erano alcuni a cui faceva compagnia la sofferenza dell’indigenza e per questo la famiglia che confezionava il delizioso minestrone, discretamente, ne portava una parte nella casa interessata. Variante aprutina e atriana sono le virtù, sapientemente cantate da Fernando Aurini, altra voce storica della RAI di Pescara. Virtù perché vogliono 7 tipi di legumi, e 7 tipi di altri alimenti, come le virtù cristiane, le teologali e le cardinali messe insieme. I numeri hanno un ruolo fondamentale nella simbologia alimentare e anche nella consumazione se è vero che tanti anni fa un abruzzese, in casa di amici, mangiò 9 piatti di virtù. Non furono pasti voraci, perché il raffinato degustatore prese il primo piatto verso mezzogiorno e si alzò dalla tavola alle 9 di sera. Tra un piatto e l’altro c’era la piacevole conversazione con i commensali, interrotta brevemente dalla radio o dalla televisione, giusto per non essere fuori dal mondo.

Nella presentazione Franco Cercone ha parlato del lupo di S. Amico, discepolo di S. Pietro Celestino, costretto a portare la legna dopo aver divorato il mulo. Una leggenda che ricorda quella dell’orso di S. Corbiniano, da tutti conosciuto con l’elezione di Benedetto XVI. E’ presente infatti nello stemma di Papa Ratzinger, anche se l’emblema papale ha suscitato più curiosità per l’abolizione della tiara (presente fino a S. Giovanni Paolo II), sostituita dalla mitra, il copricapo liturgico del Vescovo e quindi del Sommo Pontefice, tale perché Vescovo di Roma. La leggenda di S. Amico si ricollega al lupo di Gubbio ammansito da S. Francesco, certamente non il vorace mammifero, ma un indemoniato o forse semplicemente un uomo bisognoso di dialogare con gli altri. L’antropologo aquilano ha ricordato la presenza dell’immagine di S. Antonio di Padova nella chiesa mariana di Cocullo, perché anche il taumaturgo lusitano ha avuto un peso fondamentale nella demologia abruzzese dai taralli di Giuliano Teatino all’omaggio di Serramonacesca, dalle travi di Scanno alla solenne feste agostana di Tagliacozzo.

Il libro si sofferma su proverbi e novellistica e interessante è la favola dell’età dell’uomo, visione un po’ pessimistica, ma in fondo realista. L’uomo è un bambino a cui si sono aggiunte l’età dell’asino, del cane e della scimmia. L’asino perché deve lavorare, il cane in quanto si priva del cibo per darlo ai figli, la scimmia perché anziano e zittito se prova a fare affermazioni sgradevoli dalla famiglia ormai allargata.

Interessante l’intervento di Adriana Gandolfi che ha sottolineato le origini frentane e la vitalità della città di Lanciano, ancora ricca di tradizioni popolari. Ricordava i riti dell’olio di S. Biagio nella chiesa eponima e la Squilla, annuncio di riconciliazione nell’antivigilia di Natale.

Ermanno De Pompeis ha parlato del microcosmo della transumanza, ben ricostruito nel Museo delle Genti d’Abruzzo, archetipo delle raccolte etnografiche della regione, sottolineato dall’ubicazione nella “cittadella dannunziana” di Pescara con la casa natale dell’Orbo Veggente, l’antico bagno borbonico, la Cattedrale di S. Cetteo, la dimora natia di Ennio Flaiano.

La serata è stata allietata dagli zampognari che oltre ai canti di Natali, hanno eseguito brani mariani. Era il giorno prima dell’inizio della novena dell’Immacolata Concezione, tanto cara al popolo abruzzese, gravido di storia francescana. Il tutto è stato corredato dal rinfresco nella sala superiore: olive verdi, pane casereccio con l’olio novello, salame piccante di montagna e scaglie di formaggio pecorino. Tra i dolci le pizzelle, leccornie tipiche dei ricevimenti nuziali, i cui “ferri” avevano impresso lo stemma di famiglia o almeno le iniziali del padrone di casa. Sono dolci dell’area pedemontana della Maiella e la variante aprutina sono le “neole” la cui dicitura è nettamente atriana (la forma infatti ricorda le nuvole).

E per rimanere nel santorale d’Avvento, gli occhi di S. Lucia, nate sempre all’ombra della Maiella, la montagna madre degli abruzzesi e il padre dei monti, cara al Petrarca e a S. Pietro del Morrone, ricordo della carità della martire siracusana per i poveri. Strapparsi gli occhi è sinonimo di amore, dedizione, servizio, misericordia, come ci ricorda Papa Francesco.

SANTINO VERNA.