TRADIZIONI SCOMPARSE...

C’ERA UNA VOLTA IN ATRI LA FESTA DI SANTA LUCIA...

Il 13 dicembre “passa” Santa Lucia –si dice nei territori dell’ex-Lombardo-Veneto- ovvero la martire siracusana protettrice della vista fa il giro delle case dei bambini per recare i doni natalizi. In Atri si dice “e’” Santa Lucia, perché non ha la funzione di distribuire i doni.

Universalmente oculista dei poveri, per dirla con Emiliano Giancristofaro, in Atri proteggeva i maestri ferrai. Il binomio Lucia-ferro probabilmente era dovuto alle tenaglie di ferro delle torture che portarono la giovane Santa a versare il sangue per il Signore. Ma più semplicemente all’importanza della vista per tutti i mestieri.

Ironia della sorte i Santi sepolti nel Veneto non hanno più la processione nella città degli Acquaviva. Il più famoso è S.Antonio di Padova, venerato nella chiesa del Patriarca dell’Ordine Serafico e sepolto nell’omonima Basilica patavina. L’altro è S.Rocco, venerato in Atri presso l’oratorio della SS. Trinità, sepolto nella Scuola detta appunto di S. Rocco, a Venezia, città che aumentava il prestigio europeo e mediterraneo con l’accoglienza di reliquie vere o meno vere.

Anche S. Lucia riposa a Venezia, nell’omonima chiesa vicino alla stazione ferroviaria. La denominazione completa è SS. Geremia e Lucia, perché nella città lagunare non si venerano soltanto i Santi canonizzati, ma anche le figure dell’Antico Testamento. Nelle vicinanze è Palazzo Labia, sede della RAI per la regione Veneto, nei cui studi trasmise, per il commento al Vangelo, un giovanissimo Don Loris Francesco Capovilla, ora porporato centenario, impegnato nelle comunicazioni sociali (la buona stampa si diceva allora), prima di diventare segretario particolare del Papa buono.

La festa di S. Lucia – ricorda Ettore Cicconi, fondatore e responsabile del Museo Etnografico di Atri, funzionario della Regione Abruzzo- era addirittura più sentita della solennità dell’Immacolata Concezione, con l’accensione e la sfilata dei “faugni”. La Santa era venerata nella chiesa di S. Agostino, prima con la soluzione della conocchia, poi con il convenzionale simulacro fedele all’iconografia che si diffonde a partire dal Tardo Medioevo. Vestita con tunica e mantello, dove prevale il colore rosso, proprio della liturgia dei martiri, reca in mano la palma, simbolo della vittoria, quindi del martirio (l’Apocalisse ricorda la fedeltà fino alla morte per avere la corona della vita) e un vassoio con i bulbi oculari. I colori dell’iride e delle sfumature sono affidati all’estro dell’artista esecutore. Nella chiesa di S. Nicola in Atri abbiamo l’iconografia più antica con la fiaccola, richiamo del nome di Lucia. Posteriore è l’affresco nella navata sinistra della Cattedrale.

Con la chiusura di S. Agostino per impraticabilità, la statua della martire venne trasferita nella chiesa di S. Reparata e il culto portato in Cattedrale, al cui piviere appartiene l’antica chiesa di S. Caterina. Provvisoriamente fu collocata nel prolungamento absidale, poi vennero ricavate due nicchie nel transetto destro, una per il Sacro Cuore (proveniente pure da S. Agostino), l’altra per la martire di Siracusa. Attualmente è l’unica statua processionale di S. Reparata che rimane tutto l’anno nella nicchia, perché tutti gli altri simulacri vanno in processione, ad eccezione del Sacro Cuore, esposto in Cattedrale per tutto il mese di giugno. Nell’abside è la statua non processionale della Santa protettrice di Atri e dell’ex-diocesi, la vergine e martire Reparata, ma in Cattedrale viene esposto, con la cassetta delle reliquie, il busto argenteo di Valerio e Teodosio Ronci (XVII sec.), custodito nel Museo Capitolare.

Antonino Anello nella raccolta “Lu ttavette” (1977), pubblicata per interessamento del coro “A. Di Jorio” di cui è stato autorevole componente, dovendo parlare dei fuochi del solstizio d’inverno, non si occupa dell’Immacolata, come ci si aspetterebbe, ma dell’ormai scomparsa festa di S. Lucia. Implicitamente parla pure dei fuochi della Concezione, tradizione tipicamente atriana, presente in qualche altro luogo abruzzese, in forma più modesta.

Si faceva pure la processione ai Secondi Vespri, con il percorso solamente parrocchiale, uscendo dalla Cattedrale (o S. Agostino) e sostando davanti alle chiese di S. Francesco e S. Chiara. Il freddo dicembrino sconsigliava il giro lungo e i fedeli s’intabarravano nei cappotti per sfidare le possibili influenze. Per i chierichetti significava il giubbino sulla tarcisiana, mentre il sacerdote doveva ripararsi con il piviale rosso, nato proprio per ripararsi dalla pioggia (da cui il nome pluvialis). C’era, ovviamente, l’accompagnamento della banda con l’esecuzione dei brani per la processione. Poi, tutti a casa, per sedersi a tavola e consumare una cena un po’ più festosa e completare il presepe o l’albero o comunque gli addobbi di Natale. Se il 13 era sabato, la cena era prolungata perché l’indomani non c’erano levatacce per scuola o lavoro. La mensa si trasformava in tavolo da gioco, per le sfide a stop.

Nella campagna di Atri c’è pure una chiesetta di S. Lucia, nel piviere di S. Nicola, e tanti chierichetti la ricordano per la discesa festiva con il parroco Don Antonio Toscani e poi con Mons. Giuseppe Di Filippo. Dopo la celebrazione c’era la visita dalla sacrista e una piccola colazione. Nella chiesa della Madonna delle Grazie, in contrada Cona, piviere di S. Gabriele, si venera S. Lucia con un simulacro racchiuso in una scarabattola in sacrestia. Era festa per i conaroli con Don Paolo Pallini perché la festa della Santa era ed è un gioioso anticipo del Natale. La domenica più vicina e talvolta proprio il 13 dicembre è detta “Gaudete” dalla prima parola dell’antifona d’ingresso ed è il corrispettivo dell’Avvento della più famosa domenica “Laetare”, a metà della Quaresima. Per completare la terna, S. Lucia è festeggiata pure nella chiesa di S. Martino nell’omonima contrada, piviere di S. Maria nella Concattedrale.

Il ballo della “pupa” siglava l’ultima festa nel corso dell’anno del santorale atriano. Otto giorni dopo era la fiera di S. Tommaso Apostolo, ma qui parliamo di kermesse profana. Il fantoccio, tipico dell’attuale provincia di Pescara, è stato oggetto di tanti studi da parte di sociologi, antropologi e demologi. Viene offerto ai bimbi come spettacolo pirotecnico alla loro portata, proprio in un giorno a loro dedicato: S. Lucia che donò tutto ai poveri (da strapparsi gli occhi, come vuole la tradizione per indicare la dedizione e la carità cristiana), a cavallo di un asinello, nella notte più lunga dell’anno, visita le case dei bambini, e l’arrivo, nei giorni precedenti, è segnalato dai campanelli. Un motivo in più –Atri è il paese delle campane- per far tornare S. Lucia a 360 gradi nella nostra amata città.

SANTINO VERNA