IL QUARTIERE DEI VASARI

RESPIRANDO ILPROFUMO DELLA STORIA TRA I VICOLI DI CAPO D'ATRI...

 

Nel quarto di Capo d’Atri esiste un’area esposta a mezzogiorno che prende nome dai ceramisti che lavoravano in Atri: i vasari. La città degli Acquaviva era uno dei centri abruzzesi della ceramica, insieme a Castelli, Bussi sul Tirino, Torre de Passeri, Lanciano e Rapino. Castelli è diventato capoluogo regionale della maiolica. Di Castelli era Felice Barnabei, anche se la madre era originaria di Mutignano. Pertanto l’archeologo si ritenne sempre un po’ atriano e ad Atri gli fu intitolato l’avviamento industriale, trasformato con la nascita della scuola media unica nella s.m.s. “F. Barnabei”, accorporata, per la diminuzione degli alunni, all’erede del ginnasio inferiore, “Ariodante Mambelli”.

Le ceramiche furono riscoperte solo in tempi recenti, quando il Dott. Gaetano Bindi, in memoria del padre Vincenzo, medico umanista di Silvi, donò al Capitolo della Cattedrale la collezione di maioliche abruzzesi di diverse epoche e botteghe (ovviamente c’era quella famosa dei Grue, operante in Atri e Castelli). Le ceramiche ebbero degna sistemazione, per interessamento dell’Arcidiacono Bruno Trubiani, Direttore del Museo Capitolare, nel medesimo, in un’apposita sezione che divenne uno dei settori più interessanti del complesso, anche grazie ai periodici convegni.

Venendo da Largo S. Spirito si entra nel quartiere da Vico Giardinetto, la cui denominazione potrebbe derivare dal giardino in fondo alla stradina o dalla famiglia Giardini, originaria di Mutignano che si estinse con i figli di Vincenzo, Luigi, Alfonso (morto prematuramente) e Don Antonio, Canonico della Cattedrale e ultimo economo in ordine di tempo del Seminario di Atri. Con la soppressione del medesimo, per volere di Mons. Carlo Pensa che fece di Penne l’unica sede seminariale, Don Antonio si dedicò interamente alle Figlie della Carità che servivano il locale nosocomio annesso alla chiesa di S. Spirito. Nonostante l’anzianità e i problemi di salute il Canonico Giardini vi si recava e promosse nella sua famiglia il culto all’Immacolata e alla Medaglia Miracolosa.

L’ingresso di casa Giardini era in Via Trinità, ma una parte fu venduta e lo stabile ripartito. Il cavalcavia che collega quest’ultima a Palazzo Sanguedolce costituisce la principale attrattiva del vicolo. Una costruzione simile si vede a Termoli, e oltre si vede il mare. Il vicolo successivo è denominato Sanguedolce, dal cognome della famiglia che si trasferì a Mutignano. La strada è più stretta e non vi possono passare le macchine. Un tempo il vicolo, come del resto tutti gli altri del quartiere, erano molto abitati. Negli anni ’70 del secolo scorso vi aprì il negozio di generi alimentari, Elvira Del Rocino, che vi mise a protezione un’immagine di S. Lucia, raffigurata nell’iconografia tradizionale della vergine siracusana con il piatto recante i bulbi oculari. Il sacro si sposava bene con il profano, perché oggetto portafortuna divenne una lunga bottiglia di vino, mai aperta che destava la curiosità degli acquirenti. Puntuale rumore antelucano era l’arrivo del furgone del pane e l’arrivo alla spicciolata dei contradaioli che conversano del più e del meno. Era un po’ come la bottega del falegname menzionata da Don Tonino Bello. L’esercizio fu chiuso nel 2001.

Il vicolo cieco parallelo è denominato Cassetta, forse per la tipica forma. Quindi si passa a Vico Rane, dotato di cavalcavia, ma alla fine della stradina. Rane può essere il nome di fantasia o anche evocazione di uno stagno che poteva essere nelle immediate vicinanze. Le rane venivano consumate in tempi di fame, come i colombi, presi di mira sulla facciata in pietra d’Istria della Cattedrale. Un giorno un uomo che evidentemente aveva fame e doveva riportare il pranzo in casa fu sorpreso e rimproverato da un vigile perché stava svolgendo la sua caccia davanti alla chiesa principale del paese.

Ultima stradina del quartiere è Vico Tintoretto che evocherebbe l’attività del tintore, mestiere esercitato dai Ferzetti che abitavano però all’ingresso del quarto S. Croce (Capo d’Atri). La tintoria si trovava al pianterreno. La prima casa del vicolo è Palazzo Caccianini-Maturanzi che ottenne il feudo di Frisa. Costruirono la villa estiva a Pineto e il loro nome è legato più alla cittadina balneare che al paese dei calanchi. Gli atriani conoscevano più il secondo che il primo cognome forse perché si divertivano a storpiarlo nel verace vernacolo. Pensavano alle mele mature.

Da alcune case si scorge oltre al Gran Sasso e alla Maiella, guardando la parte opposta, la torre civica. Agli atriani non fa effetto, perché “ab assuetis non fit passio”, ma quando arrivò una famiglia dall’Argentina, originaria ovviamente dell’Italia, rimase a bocca aperta quando vide dalle parti dell’allora erigendo Belvedere il Mare Adriatico e ad un tiro di schioppo la catena appenninica. Nel Paese andino questa soluzione è impossibile. Aveva ragione Toto Cotugno, venuto peraltro in Atri nel 1987, quando cantava “se vai a cercar fortuna in America/ ti accorgi che l’America sta qua”. E non aveva tutti i torti.

SANTINO VERNA