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- Pubblicato Domenica, 07 Novembre 2021
- Scritto da Santino Verna
L'arte racconta la fede
SANT’ELISABETTA D’UNGHERIA
NELLA CATTEDRALE DI ATRI
Nella messe degli affreschi tre-quattrocenteschi della Cattedrale di Atri, spicca quello di S. Elisabetta di Turingia o d’Ungheria, anche se maggiormente recensita con il nome della nazione magiara. Nel 1999 a questo gruppo di affreschi, meno famosi del ciclo pittorico di Andrea Delitio, si interessò Corrado Fratini, docente di Storia dell’Arte Medioevale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Perugia.
Il docente spellano, allievo di Pietro Scarpellini, puntò l’attenzione pure all’immagine di S. Elisabetta, per la relazione particolare con la città di Perugia. Elisabetta fu canonizzata nella città di S. Costanzo, il 27 maggio 1235, dodici anni dopo la riconsacrazione della Cattedrale di Atri. Perugia fu scelta, perché era la momentanea sede del Vescovo di Roma, Gregorio IX, e il rito avvenne nella Chiesa di S. Domenico. Quest’ultima, grande di dimensioni, voleva essere, secondo lo storico dell’arte perugino Francesco Piagnani, contraltare di Assisi, data la rivalità tra le due città. I perugini finanziarono i figli di S. Domenico, pur di non dare soldi ai Francescani, detto in maniera brutale.
La prima Chiesa nella storia con eponima S. Elisabetta è proprio a Perugia, vicino all’Università per Stranieri. Un modesto edificio sacro non compreso nell’itinerario del turista frettoloso. Le chiese visitate per avere almeno un’idea di Perugia sono la Cattedrale di S. Lorenzo, le monumentali S. Domenico e S. Pietro, S. Francesco al Prato con l’Oratorio di S. Bernardino (la Chiesa che funge da aula liturgica dei Conventuali, per l’impraticabilità di quella vera e propria), S. Maria Nuova e S. Severo, quest’ultima esclusivamente per vedere un Raffaello. Ma S.Elisabetta rimane in fondo alla classifica nelle Chiese perugine.
Elisabetta, nacque nel 1207 da famiglia principesca e fu battezzata con il nome della cugina della Madonna, sposa di Zaccaria e madre del Precursore che sussultò nel grembo a contatto con il Signore. Promessa sposa ad un aristocratico all’età di quattro anni, come avveniva in quel tempo, si sposò giovanissima ed ebbe tre figli. Conquistata dall’ideale di S. Francesco, conosciuto attraverso i suoi seguaci nel 1222, si dedicò totalmente ai poveri, per i quali fondò degli ospizi.
L’affresco tardomedioevale atriano, di autore ignoto, ritrae S. Elisabetta con una brocca e non con le rose che spuntano dal mantello, per via dell’episodio forse più celebre della breve e feconda vita. Poiché portava il pane e altro cibo, oltre ai vestiti, ai poveri che personalmente serviva, il marito le chiese cosa portasse nel mantello. Elisabetta non voleva rivelare gli atti di carità e disse di avere delle rose. Era pieno inverno e il pane si trasformò in un serto di rose profumate. Lo stesso episodio sarebbe avvenuto a Loreto Aprutino, quando era fanciullo S. Tommaso. Pur se originario di Roccasecca, passava a volte le vacanze nei possedimenti materni.
S. Elisabetta, nell’immagine atriana, ha la brocca, attributo precedente alle rose. Un cambiamento analogo a S. Lucia. Fino al XIV sec. era rappresentata con la fiaccola, simbolo della luce ricordata nel nome. In seguito comparvero i bulbi oculari nel vassoio, per ricordare la leggenda (mutuata dal martirio di S. Agata) degli occhi strappati dai carnefici, prima del martirio.
La brocca è simbolo della carità, ovvero della seconda opera di misericordia corporale: dare da bere agli assetati. Forse oggi non attenzioniamo più questo gesto, perché abbiamo tutti l’acqua in casa. Accanto a S. Elisabetta significa proprio questo, anche se si sposa non molto bene con i rigidi inverni d’oltralpe quando i poveri si aspettavano maggiormente pane e latte caldo. Comunque sia è il riassunto visivo della Santa francescana della carità.
Ai piedi abbiamo il donatore. Si parla quindi di affresco votivo. La pittura è stata eseguita sul secondo pilastro cruciforme del lato destro della Basilica. Gli altri pilastri furono rivestiti da ottagoni, per motivi statici, affettuosamente chiamati “camicioni” da Renzo Battisti.
L’immagine più conosciuta di S. Elisabetta, in Atri, è quella eseguita dal Padre Giovanni Lerario, per la Chiesa di S.Francesco. Con la soppressione del Convento (1975), i terziari (allora una cinquantina) chiesero di trasferire la tela in S. Chiara, sede del TOF della cittadina. Le Clarisse la collocarono nel parlatorio grande. L’immagine è simile a quella, sempre eseguita dal Lerario, conservata nell’antisacrestia della Chiesa di S. Antonio a Pescara, dove rifulge l’opera del Conventuale pugliese adottato dall’Abruzzo.
In S. Chiara vi è anche la statua crisoelefantina di S. Elisabetta, simmetrica all’altra S. Elisabetta, di Portogallo, nell’altare dell’Addolorata, nel lato della Chiesa virtualmente di pertinenza della Parrocchia di S. Nicola. La Chiesa di S. Chiara, dal XV sec. appartiene al quarto di S. Nicola, per via della divisione acquaviviana della parte intramurale di Atri, in quarti.
Nella Cattedrale di Atri non vi sono antichi affreschi di S. Francesco e di S. Antonio, ma vi è la terza Santa canonizzata dell’enorme famiglia francescana. Patrona dei terziari e dei panettieri, fulgido esempio di spiritualità laicale e di carità operosa e fruttuosa.
SANTINO VERNA