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- Pubblicato Lunedì, 20 Gennaio 2020
- Scritto da Santino Verna
LA BELLEZZA DELLE TRADIZIONI
UNA SERATA PER IL SANT’ANTONIO IN VIA PALERMO
Si è rinnovata, a Pescara, grazie all’associazione culturale “Le Muse” con l’atelier di Angela Di Teodoro in Via Palermo, la tradizione del S. Antonio, molto cara alle genti d’Abruzzo. All’inizio della serata è stata ricordata la collocazione calendariale del fondatore del monachesimo: il solstizio invernale. Le giornate, in gennaio, cominciano, a dispetto del freddo, a diventare più lunghe e da qui il proverbio atriano “Sant’Antuniecce/ n’urecce”, per indicare circa un’ora in più di luce.
La serata si è svolta in un’insolita location per il Sant’Antonio, il pianterreno di un condominio immerso nel dedalo delle ordinate vie di Pescara centrale, illuminate dalle insegne degli esercizi commerciali e dalla croce avvolta dal neon, della facciata della Chiesa dello Spirito Santo. Non era un pomeriggio particolarmente freddo, abbiamo avuto una mite prima metà di gennaio, ma già cominciava a scendere qualche stilla di pioggia.
I protagonisti della serata erano Rosanna Binni, Mara Seccia, Elisabetta Mancinelli, Sandra De Felice, Biagio Di Carlo e Marina Lumenti. Poesie, note esplicative sulla festa di S. Antonio e canti, nel ricordo del Santo più conosciuto del mese di gennaio.
In Abruzzo, dall’Epifania all’ultimo giorno di gennaio, le tradizioni ruotano intorno alla festa di S. Antonio Abate, anche se nella terza decade, a macchia di leopardo, ne arrivano altri. S. Sebastiano (Ortona, S. Sebastiano dei Marsi, Vasto), S. Agnese (Corropoli, L’Aquila, Pineto), S. Domenico (Cocullo, Villalago) e lo Sposalizio di Maria Santissima e S. Giuseppe (S. Martino sulla Marrucina).
Biagio Di Carlo, architetto con la passione della musica, ha cantato il S. Antonio di Fara Filiorum Petri, accompagnandosi con la chitarra. Il brano rievoca il miracolo di S. Antonio, vestito da generale, quando mandò via, con l’intercessione presso il Signore, l’esercito francese. Il paese longobardo, da non confondere con Fara S. Martino, patria della pasta, disponeva di pochi uomini per affrontare i francesi, e per questo il Santo avviò l’incendio degli alberi del bosco e i nemici fuggirono.
Per ricordare l’evento, è nata l’accensione delle farchie, una delle principali tradizioni popolari abruzzesi, ex-aequo con i serpari di Cocullo, ma forse leggermente indietro perché meno attenzionata dagli antropologi.
Il miracolo di Fara Filiorum (come è chiamato talvolta popolarmente il piccolo comune della provincia di Chieti) o “Fara cipollara” (come dicono i cugini dell’altra Fara), è la rivisitazione abruzzese di un episodio della “Vita Antonii”, scritta da S. Atanasio, Vescovo di Alessandra, in lotta contro l’arianesimo. S. Antonio, viveva nel deserto, radunando attorno all’ideale della vita contemplativa numerosi discepoli, ma ne usciva per confortare i cristiani perseguitati. Erano gli ultimi atti di violenza dell’Impero Romano. Arriverà poi Costantino, amico di Antonio, e il cristianesimo comincia l’esodo dalle catacombe. Quando i soldati volevano torturare e ammazzare Antonio, rimasero colpiti dalla levatura morale e dalla serenità interiore, e per questo lo lasciarono nell’eremitaggio. Per questo S. Antonio Abate è uno dei primi Santi non martiri della Chiesa.
L’invasione francese in Abruzzo, alla fine del XVIII secolo, riecheggiava la violenza dei Romani. I cugini d’oltralpe non hanno mai digerito il dominio di Roma, e non esitarono ad allearsi con gli Ottomani per combattere in forma sotterranea, la patria della cattolicità. Le spoglie di S. Antonio Abate, a dispetto di quest’episodio abruzzese, si custodiscono in Francia, per sottarle alla profanazione dei musulmani, quando erano a Constantinopoli.
Poesie, canti e rappresentazioni, declamati nella serata, erano riti del solstizio invernale, quando, nelle tre vigilie delle ferie del contadino, Capodanno, Epifania e S. Antonio, gruppi di giovani, muniti di strumenti rabberciati, oppure senza nulla, si recavano da parenti e amici o dai maggiorenti del paese, per cantare stornelli augurali in cambio di doni in natura, e più tardi, in denaro. Il padrone di casa, avendo ricevuto di più, nel nome di S. Antonio doveva estrarre dalla dispensa doni alimentari per l’allegra compagnia.
La Prof.ssa Elisabetta Mancinelli, docente di lettere, ha parlato degli animali presenti nell’iconografia di S. Antonio. Essendo stato tentato dal diavolo, nelle sembianze di ragazze prosperose e oscene, per non rappresentarle accanto a lui, si preferì la sostituzione con gli animali della campagna, buoi, pecore, cavalli, asini, conigli, galline, e successivamente anche cani. I gatti nella società contadina, non erano ufficialmente animali d’affezione. Erano utili alla massaia e al contadino, perché tenevano lontani topi e vermi, ma nello stesso tempo i felini si buttavano dal cibo, da qui il proverbio, per indicare la furbizia, “frije lu pesce e auarde la gatte”.
La serata, una conferenza in clima di famiglia, ha registrato l’esperienza del racconto dei bambini di una volta. Spesso venivano chiamati Antonio, Antonietta, Antonella. Per omaggiare il fondatore del monachesimo e il Santo di Padova, contemporaneo di S. Francesco. Oggi si preferiscono nomi stranieri, presi dai telefilm e dalle conquiste della rivoluzione informatica. Si deve parlare di quell’esterofilia cronica, lamentata da Toto Cotugno, nella sigla di “Domenica In” di circa trent’anni fa.
Ma chi è esterofilo, e lo possiamo essere tutti, nel villaggio globale, s’imbatte in due Santi planetari. Antonio Abate, africano, passato per l’Asia Minore e arrivato in Europa, non tanto con il corpo, ma con la messe di riti (persino Varese ha i falò di S. Antonio), Antonio di Padova (pardon di Lisbona, se sto parlando con un portoghese), lusitano di nascita, approdato in Africa, instancabile predicatore nell’Italia Settentrionale e in Francia Meridionale. Una geografia non troppo corposa, per quei tempi molto vasta, ma un Santo davvero di tutto il mondo, come lo è pure l’omonimo Abate, perché la venerazione ha raggiunto e raggiunge ancora gli estremi confini della terra.
SANTINO VERNA