Opinioni \ Riflessioni

IL ROMANZO DELLA SINISTRA VA RISCRITTO

Alla sinistra non resta altro che risvegliarsi dal sonno dogmatico. Qui e ora. In Italia e all’indomani del voto del 4 marzo. Conosciamo tutti l’esito delle votazioni. Una grande affermazione del “movimento 5 stelle” a cui segue una ricomposizione dei rapporti di forza all’interno del centro-destra e una netta debacle del Partito Democratico. Subito opinionisti e commentatori si sono fiondati ad annunciare la morte della sinistra e della tradizione socialista, non solo in Italia, ma anche in Europa. Crisi della sinistra? “Ma già il PD non era più propriamente ‘sinistra’. La sua stessa nascita, e l’Ulivo prima, riconoscono dal proprio stesso nome l’esaurirsi di questa denominazione” sentenzia il filosofo Massimo Cacciari dalle colonne dell’Espresso.

Io non credo si debba suonare il requiem della sinistra. Perché se guardiamo attentamente allo scenario europeo, il socialismo è più vivo che mai. Corbyn, Sanders, La France Insoumise, Podemos sono grandi protagonisti della vita politica nei rispettivi Paesi con buone chance di governare, in particolar modo Corbyn nel più breve periodo. La sinistra già governa in Grecia e in Portogallo, qui in particolar modo con ottimi risultati.

Di sicuro, in Italia tanto Liberi e Uguali quanto Potere al Popolo non hanno di che sorridere. Ma da ciò non consegue parlare di fine della sinistra: l’elettorato progressista esiste ancora ed ha votato in massa 5 stelle. Troppo facile agitare l’abiura del populismo, genericamente inteso come un’unica strisciata di colore e non un’assai ampia e variopinta aggregazione di movimenti e di significati. A onor del vero, Bersani  aveva compreso nel 2013 la novità e la complessità di questo movimento, e  l’esigenza di una forza politica che affiancasse i 5 stelle, soprattutto alla luce della ribalta della destra demagogica e xenofoba su scala internazionale.

Evidentemente questo non è bastato per convincere l’elettorato in fuga dalla sinistra ( difficile solo pronunciare l’ormai evaporato centro-sinistra). In politica non funziona come in chiesa: non basta la confessione dei propri peccati per essere purificati. D’Alema e Bersani hanno pagato la passata subalternità alla cosiddetta “Terza Via”  e al blairismo degli anni ‘90, contribuendo a rafforzare il finanzcapitalismo ( secondo la definizione del sociologo Luciano Gallino) e consegnando una struttura tecnocratica, l’Unione Europea, che tenta inesorabilmente di annientare lo stato sociale frutto delle lotte politiche degli anni ’50,’60 e ’70. Badate bene: è la socialdemocrazia degli anni ’90 ad essere morta. Ossia quella dottrina definita da molti “ liberismo progressista”: cioè l’accettazione dei principi liberisti in cambio di diritti civili,certo essenziali, ma che avrebbero dovuto essere conquistati e difesi insieme ad una politica alternativa. Probabilmente  Liberi e Uguali avrebbe ottenuto un risultato migliore se la scissione, come aveva suggerito D’Alema, fosse avvenuta durante la discussione sul Jobs Act in Parlamento, affinché si potesse tornare ad avere un ruolo nel Paese sulle questioni sociali.

In ogni caso, il romanzo della sinistra va riscritto. Ci troviamo in una fase di ricostruzione, o meglio, di re-invenzione. L’Italia negli anni’70 è stata un laboratorio politico per il campo progressista internazionale, che studiava attentamente la proposta dell’Eurocomunismo da parte del Partito Comunista più avanzato d’Europa. Ora invece bisogna imparare , come ho detto prima, dalle esperienze socialiste negli altri Paesi. Ma può essere un’opportunità. L’opera di re-invenzione non può essere compiuta con un salto all’indietro dentro i vecchi schemi del riformismo socialdemocratico e popolare già ferito a morte da Reagan e Thatcher. Le politiche di piena occupazione del secondo dopo-guerra si reggevano sostanzialmente sul paradigma dello Stato-nazione. Ma i processi di globalizzazione e le nuove forme del capitalismo internazionale hanno reso obsoleta questa formula: se un singolo Stato attuasse un attacco deciso alle rendite finanziarie e politiche di deficit a sostegno dell’occupazione verrebbe immediatamente aggredito dalla speculazione e vedrebbe crollare gli investimenti al suo interno.

La verità nuda e cruda è che non potrà più esserci politica socialdemocratica se non in una dimensione europea . Questo è davvero il compito che la sinistra dovrebbe assumere: costruire una sua organizzazione comune su scala continentale. Recuperare su questo terreno l’antica vocazione internazionalista. Per farla finita innanzitutto con le politiche di austerità, le quali presentano uno stretto legame con l’avanzata delle forze post-fasciste.

Una ricerca del National Bureau of Economic Research ha esaminato l’ascesa elettorale del partito nazista negli anni Trenta mettendola in relazione con l’intensità delle politiche di austerity attuate in quel periodo in Germania. Lo studio ha rivelato che tra il 1930 e il 1932 ogni incremento di un punto delle restrizioni di bilancio risulta statisticamente associato a un aumento dei voti ai nazisti di quasi due punti e mezzo, nel caso di tagli alla sanità di oltre cinque punti. Analoghi nessi tra politiche di austerità e ascesa delle destre xenofobe in Europa ci sono stati dopo la grande recessione del 2008. Perciò mi sembra lecita una domanda a chi in questi anni ha issato la bandiera della lotta al fascismo mentre approvava pesanti restrizioni ai bilanci pubblici e allo stato sociale. Se l’austerity contribuisce in modo rilevante al successo delle destre estreme, fino a che punto si può sostenerla e al tempo stesso portare coerentemente avanti le istanze dell’antifascismo? Può essere un utile quesito per celebrare in modo degno il prossimo 25 aprile, al di là degli slogan e della retorica di facciata.  

Nicola Cerquitelli