GABRIELE D’ANNUNZIO A 80 ANNI DALLA MORTE

IL GRANDE "VATE" ABRUZZESE

Il primo marzo 1938, moriva al Vittoriale, l’esilio dorato sul Garda, forse suicida, Gabriele D’Annunzio, uno dei piu’ grandi scrittori della letteratura italiana. Dato che nessuno è profeta in patria, questo riconoscimento non è pienamente considerato dagli abruzzesi.

Gabriele Rapagnetta era nato a Pescara, in Corso Manthonè, il 12 marzo 1863, da Francesco Paolo, benestante e Luisa De Benedictis, aristocratica di Ortona. Gli fu imposto il nome dell’Arcangelo, certamente non per S. Gabriele dell’Addolorata, morto da appena un anno, e semisconosciuto religioso, ma per ricordare il patriota Gabriele Manthonè, legato al passaggio dalla storia moderna a quella contemporanea. Adottato dallo zio, Antonio D’Annunzio, ne assunse il cognome, anche perché non gradiva quello originario, tuttora presente nella rubrica pescarese.

Dal papà avrebbe assunto la passione per le donne, ma forse fu soltanto una passione a tavolino, per costruire il personaggio. Le amanti del babbo venivano ricevute in casa e Donna Luisetta doveva preparare per esse i migliori manicaretti. Il piccolo Gabriele si affezionò moltissimo alla madre, riconoscendola vittima delle infedeltà del padre.

Grazie ad un ufficiale presente a Pescara, Francesco Paolo mandò il figlio al “Cicognini”  di Prato dove sarebbe avvenuta la sprovincializzazione del ragazzo. Pur potendo tornare anche due volte l’anno, non essendo abissale la distanza, il papà volle che il figlio rimanesse in Toscana, per perdere l’accento abruzzese e acquisire la mentalità dell’Italia appena unita, almeno sulla carta. Nel rigoroso collegio pratese Gabriele fu punito piu’ volte per indisciplina e tra le tante marachelle, ricordiamo le risposte in greco, mentre serviva Messa al cappellano, in luogo del latino.

Tornato in Abruzzo, intensificò l’attività di scrittore, ma dire che è stato soltanto scrittore è riduttivo. Trageda, poeta, giornalista e militare, D’Annunzio fu un intellettuale a 360 gradi, pur non avendo conseguito la laurea. Neppure fisicamente era una bellezza, anche se il fisico asciutto poteva essere piu’ che sufficiente per attrarre le donne. Era calvo e aveva mantenuto, nonostante i sogni paterni, il marcato accento abruzzese. Ma era sempre molto elegante.

Nell’ultimo decennio del XIX secolo, il “locus amenus” del Vate fu il Convento di S. Maria di Gesu’ a Francavilla al mare, annesso all’omonima Chiesa dove si venera S. Antonio di Padova. Accolto dall’amico fraterno Francesco Paolo Michetti, toccolano di nascita e chietino di adozione, il cenacolo divenne esplosione di cultura per tutta la regione. Qualcuno ha proposto come simbolo dell’Abruzzo proprio quello stabile francavillese, in luogo di S. Maria di Collemaggio, mettendo per l’ennesima volta in gara la parte appenninica contro quella adriatica.

Vi parteciparono tutti gli intellettuali abruzzesi, ad eccezione di Felice Barnabei, l’archeologo di Castelli, legato ad Atri, in quanto la madre era originaria della vicina Mutignano. La triade intellettuale, pero’, era formata dall’Orbo Veggente con i due Francesco Paolo, Michetti e Tosti. Nel 1904 fu presentata “La Figlia di Jorio”, tragedia pastorale, il cui spunto viene rivendicato da Orsogna e Tocco Casauria.

L’opera fu illustrata dall’amico Michetti e la tela è oggi conservata in un’apposita sala presso la sede della Provincia di Pescara. Con lo sfondo della Maiella, la montagna madre, cara a Francesco Petrarca e da lui definita “domus Christi”, e indirettamente anche a Dante e a Boccaccio, è rappresentata una ragazza avvolta in un ampio scialle, circondata da un gruppo di mietitori inebriati.

Se la tela si trova in quel palazzo ad un tiro di schioppo dall’asso attrezzato, si deve all’impegno di D’Annunzio per la nascita di Pescara con la sua provincia. Il fiume Aterno, la “Pescara” (dicitura poi resa al maschile), divideva i comuni di Pescara e Castellamare Adriatico, rispettivamente nelle province di Chieti e Teramo e nelle diocesi di Chieti e Penne. Dai paesi dell’entroterra la gente si trasferiva nella nuova città, pullulante di costruzioni e luoghi di commercio. Ma il poeta volle la priorità di Pescara su Castellamare Adriatico, anche se poi la gente ha modificato la dicitura delle aree topografiche: Centrale e Porta Nuova, con riferimento alle due stazioni. Inoltre, per avere la sepoltura della madre in S. Cetteo, finanziò la ricostruzione della Chiesa Madre di Pescara, dall’Abate Pasquale Brandano ribattezzata Tempio Nazionale della Conciliazione, dedicata a tutti i Santi Pontefici. E si potrebbe avverare il sogno dei medaglioni di tutti i Papi canonizzati lungo l’ampia navata centrale, come nella Basilica di S. Paolo fuori le Mura, dove pero’ sono presenti tutti i Vescovi di Roma.

D’Annunzio non fu certamente uomo di chiesa. Ma visionato con la lente dell’uomo condizionato dalla rivoluzione informatica, la sua figura suscita limpide risate riguardo alla leggendaria coprofilia. Divenuto un personaggio famoso già in vita, amato persino da Giorgio La Pira prima della conversione, durante la vita da studente a Messina, è giustificata la nascita di numerose storielle, anche prive di fondamento.

Dopo 80 anni dalla morte, D’Annunzio è presente a Pescara, nella cittadella dannunziana che comprende la casa dove nacque, il forno dove comprava il pane, lo stabile dell’alter ego Ennio Flaiano, la chiesa dove fu battezzato e il quartiere dei giochi con gli amici. Oggi, Corso Manthonè, spopolata a causa del trasferimento degli abitanti in altri luoghi dell’area metropolitana, e’ piena di movida, maggiormente in estate, a differenza di Corso Vittorio Emanuele, piena di insegne luminose, ma con scarsa presenza antropica nelle ore notturne.

Gli abruzzesi dovrebbero studiare tutti le poesie del Vate, dove traspare sempre la tenerezza delle radici con il dramma dell’esistenza umana. Ma, siamo tutti malati di esterofilia, e quindi, se scorgiamo sul profilo di letteratura la scheda biografica di un autore con la stelletta subito seguita da una località non abruzzese, istintivamente vien da dire: sicuramente è grande!

SANTINO VERNA