UN AFFETTUOSO VIAGGIO NELLA MEMORIA

LA MIA PALLACANESTRO...E ANCHE IL CALCIO ANNI '60...

CAPITOLO I - IL CALCIO

Dopo aver ricordato, nella Mia Atri,  gli anni felici della mia infanzia ed i personaggi che li hanno caratterizzati, non posso fare a meno di raccontare degli sport che si praticavano nel periodo  1962-1970: in parole povere solo calcio e  pallacanestro (sarebbe diventato basket solo molti anni dopo). Parlerò degli appassionati che ricordo che davano calci al pallone o lo facevano entrare in un canestro, racconterò qualche simpatico episodio. Come nella volta precedente, voglio mettere nero su bianco sia per non dimenticare più, sia perché chiunque legga possa eventualmente integrare ed ampliare i miei ricordi (non correggerli, perché i ricordi mi appartengono e non  sono verità di fede), in modo che possa risultare un altro piccolo affresco della mia Atri amata, il più possibile completo.

Forse saprete che sono nato nel 1952; fino alla seconda-terza media, e cioè fino al 1962-1963 non ho mai svolto un’attività sportiva vera e propria diversa dai giochi con gli amici a Porta Macelli.

Sicuramente allora praticavo solo il calcio, beninteso il calcio in Vico Trolii, con i tanti amici che vi ho fatto già conoscere; usavamo palloni da poche lire che puntualmente si foravano o finivano sul terrazzo di Maddalena Grue ( che non li restituiva mai). Non ero assolutamente una promessa del calcio, tutt’altro, ce n’erano altri molto più in gamba, uno fra tutti Massimo D’Amario, che amava i dribbling ed era molto veloce: io mi limitavo a calciare il pallone quando veniva a tiro, che  a volte andava diritto, molte altre volte, sbattendo sui muri del vicolo come in un biliardo,  andava più o meno verso la porta, che era rigorosamente delimitata da due mattoni messi in verticale. E poi c’erano i campi da gioco autarchici, il più grande dei quali era il grande spazio sotto le medie Mambelli, che iniziava all’altezza della strada adiacente l’attuale sede della ASL ed arrivava fino sotto la salita in terra e pietre che costeggiava la scuola ( all’altro lato della scuola non c’erano ancora né ville né palazzi); era un bella estensione di terra con qualche ciuffo d’erba, su cui venivano piazzati i circhi di passaggio, le giostre e che, all’occorrenza, diventava il nostro Allianz Stadium. Bè, neanche lì ricordo di aver colto molti allori: negli anni delle medie forse ero un po’ più largo che alto e quindi, se volevo giocare,  potevo fare solo il portiere ed anche in quel ruolo non ero un asso e spesso la palla mi passava tra le gambe ed entrava in goal…..Insomma, un disastro,  non era proprio il mio sport.

A convincermi ulteriormente che dovevo cercare altro, furono i martedì ed i giovedì nei quali assistevo agli allenamenti di calcio della prima squadra di Atri, che giocava in promozione, e le partite della domenica. In quegli anni il campo di calcio era  subito dopo il vecchio Ospedale, dove oggi insistono i due padiglioni nuovi; era come all’interno di una piccola conca, sulla parte verso l’ospedale poggiavano le “gradinate” dei tifosi locali, sulla parte opposta le gradinate o meglio i gradini in cemento, in cui venivano messi per lo più i tifosi ospiti, sovrastate da un terreno più elevato. Su questo terreno, che era ancora aperta campagna, si mettevano di solito gli atriani che volevano vedere la partite dalla “galleria”. Ricordo che a volte dall’alto partivano zolle e pietre scagliate sui tifosi “rivali” soprattutto in occasione di zuffe violente, specialmente con i silvaroli; sempre in mezzo, tra gli ospiti, non mancavano mai ” Tarzan” Rachini e Carlo Grue, spesso a darle e a prenderle a volontà.

La squadra che ricordo io era un insieme di atriani e pescaresi; ne cito i nomi in memoria: allenava Tomei, il portiere Petricca, il libero Udillo, c’erano gli atriani Marcello Piccirilli, Piero Martella, (forse) Mimì Rachini poi Fanese, Fiorillo, i fratelli Di Cenzo, Pietranico, Diodati… Era proprio una bella squadra, forte, tecnicamente ben attrezzata, che doveva giocare su un campo senza erba, spesso fangoso, con i palloni di cuoio che, se si bagnavano, diventavano massi. Non ricordo di aver visto giocare il mitico Bibbì Pavone e gli altri atleti della storia del calcio atriano, che erano stati sicuramente attivi negli anni precedenti.

Ebbene, il vedere la durezza degli allenamenti, la durata delle partite, spesso veramente combattute, la fatica e le grandi energie versate dai giocatori, specie quando si giocava contro Silvi, Vasto, Penne, mi confermava ancor più nella decisione che quello sport lo avrei solo guardato e mai praticato.

CAPITOLO II - E VENNE LA PALLACANESTRO

Non ricordo come conobbi la pallacanestro, forse se ne parlò a scuola; e così, negli ultimi anni delle medie, dopo la messa, dalle 11 in poi  ci recavamo in massa al campo della Villa Comunale per assistere alle partite della prima squadra. Non ne avevo mai visto in precedenza, (forse solo un torneo in Piazza Duomo, anni prima) e ignoravo del tutto le regole, ma era una squadra di Atri che giocava contro squadre provenienti da  tutta la regione: bisognava fare il tifo;  e poi c’era tanta gente che aspettava proprio la domenica per divertirsi, guardando la pallacanestro la mattina e il calcio nel pomeriggio. Partita dopo partita cercavo di capire come si giocava e mi ci appassionavo pure. Bastava veramente poco per divertirsi in maniera del tutto semplice ed innocente; d’altronde non avevamo molti altri svaghi pubblici se non la televisione dei ragazzi del primo pomeriggio..

Ricordo un campo molto grande, i due canestri in legno e, stranamente, anche quasi tutti i giocatori e i dirigenti del tempo. Gli atleti appartenevano ad una generazione precedente la mia, non erano miei amici, ma successivamente ebbi modo di vederli spesso e di apprezzarli…li avrei affrontati a volte da avversario nei tornei estivi, altre volte avrei giocato con alcuni di loro anni dopo, quando in squadra giocavano molti rosetani: Settepanella, i vari Verrigni, Vannucci ecc.

Devo dire che quello sport mi piaceva proprio; e poi, mentre i calciatori erano in genere bassini e con le gambe storte, i giocatori di pallacanestro erano alti,  agili, si impegnavano tanto in un gioco che evidentemente amavano, ma soprattutto non giocavano nel fango: i fratelli D’Alessio, Nino, Ivan, e Gherardo, Franco Milozzi, Luigi Santarelli, Nino e Mariano Bindi, Silvio Cincolà, Nicolino De Santis, altri che non ricordo, correvano, saltavano, sudavano, vincevano anche spesso, guidati soprattutto dai canestri e dall’abilità di Ivan D’Alessio. Le partire avevano solo due tempi da venti minuti l’uno e scorrevano veloci; noi tifosi  circondavamo il campo, divisi da questo solo con una cordicella, che però era sufficiente ad evitare qualsiasi invasione; raramente ricordo liti con gli ospiti, anche perché, all’epoca, di domenica mattina da fuori Atri venivano solo atleti ed accompagnatori. Voglio citare i dirigenti del tempo: Don Giuseppe Di Filippo, Piero Marcone, Guido Angelozzi, Vittorio Ferretti, che anni dopo ci avrebbe tante volte accompagnato a giocare fuori città con la sua Ford Escort, Tonino Manco, il mago del cronometro che era in grado, come dirò poi, di far durare le partite a seconda delle necessità, Vincenzo Baldini…. e poi il prof. Pasqualino Ferretti, Giuseppe Di Giancroce, Giulio Pisciella e poi tanti altri ancora. Chiedo scusa a coloro che non ho citato per mera dimenticanza e invio un saluto commosso a coloro che oggi guardano il basket dal cielo.

Ma non ero ancora del tutto convinto che quello fosse lo sport da scegliere. Forse, non ne sentivo uno stretto bisogno: avevo i vicoli in cui giocare con i vicini, una taglia abbastanza massiccia, la mia cara mamma Concetta, memore delle broncopolmoniti prese da piccolo, mi scoraggiava, preoccupandosi continuamente  che non sudassi troppo e che non uscissi troppo di casa, trascurando gli studi. Per cui ero felice così, non mi mancava nulla, forse, crescendo….

CAPITOLO III - LA SCELTA

E Galeotto fu il ginnasio, si potrebbe dire, ed il professore di educazione fisica Vittorio Colleluori.

Dal  1964 in poi, quasi sempre il bidello Filippo Cantarini ci accompagnava a far ginnastica nella palestra del Cardinal Cicada. C’era una grande stanza in cui si facevano gli esercizi a corpo libero, e si usavano gli  attrezzi più ingombranti, come il cavallo ( ricordo una mia performance: corsa, balzo sulla pedana, tentativo di volo ad angelo per andare al di là senza toccare il cavallo con i piedi, prof. Colleluori dall’altra parte che deve riprendermi a volo, piedi che sbattono sul cavallo, proiezione scomposta in avanti e addosso al professore, due pugni nel mio stomaco per sorreggermi, caduta a terra di entrambi ed un urlo del professore:- Coglioneeeeee!), una stanza più piccola in cui c’erano le spalliere, il quadro svedese (lo odiavo, perché a salirci su soffrivo di vertigini), funi e assi per arrampicarci. L’unico sport che di solito si faceva in gruppo era la pallavolo: una corda quasi invisibile fungeva da rete, tanti di qua e tanti di là a lanciarsi goffamente la palla, uno solo sapeva giocare veramente: Francesco Antonelli, un nostro compagno che veniva da Castilenti.

In primavera, credo, il prof. Colleluori ci portò nel campo di basket sottostante, in cemento,  sotto cui sarà ritrovato, molti anni dopo il teatro romano; la strada comunale era a livello del campo, non in discesa come è oggi e oltre questa c’era solo una scarpata con tante “fratte”ed un viottolo fra esse su cui qualche volta abbiamo fatto corsa campestre.

Il prof. ci sistemò in fila davanti ad un canestro, con il tabellone in legno ed un anello mezzo sconnesso, ci disse di afferrare un pallone arancione, liscio come uno specchio, di fare un movimento rotatorio dall’alto in basso e di lanciare il pallone dentro l’anello…Feci canestro al mio primo tentativo… Una folgorazione…era il mio sport, non c’erano dubbi, lo avevo visto tante volte la domenica mattina ma ora potevo essere io il protagonista. Ovviamente il prof. Colleluori ci insegnò solo due o tre cose sul gioco, le maggior parte delle regole restarono ignote,  non sapevo cosa fossero palleggio, movimenti, schemi, macchè, ma era comunque un colpo di fulmine.

Nei mesi successivi continuammo ad approfondire (si fa per dire) la pratica della pallacanestro nel campo del Cardinal Cicada, in cui ci recavamo spesso anche  nel pomeriggio, perché non si andava proprio nel  campo sotto la Villa Comunale riservato agli adulti ed al calcio. Ricordo che alcuni ragazzi con qualche anno di più  venivano a giocare con noi sia per divertirsi, sia per fare numero o provare ad insegnarci almeno le regole del gioco: ricordo la presenza di Nicola De Santis e una volta anche di Bruno Zenobio, noto artista che ora abita a Roseto, che involontariamente urtai con violenza, facendolo cadere a terra e rompendogli un braccio. Comunque, nonostante tutto,  ci piaceva proprio correre, sudare, cercare di mettere la palla nell’anello, sfogare le grandi energie che avevano degli adolescenti in pieno sviluppo...era un divertimento vero e proprio!

La generazione anni 1951-1952 era considerevolmente alta, per il periodo, e, quindi, sembrava proprio che fossimo destinati a giocare a pallacanestro: Aldo e Arnaldo Mattucci, Alberto Romano e poi quelli meno alti, ma veloci e resistenti, Roberto Ferretti, Francesco Colleluori, Gaetano Pallini, Guido Ricci. Spesso, per completare le squadre venivano anche amici che non sapevano tenere il pallone in mano, ma non importava, l’importante era giocare e divertirsi.

CAPITOLO IV

Intanto cominciammo a frequentare il campo della Villa Comunale, molto più  grande di quello del Cardinal Cicada, che aveva un cemento talmente abrasivo che se avevi la sventura di cadere, scivolando, ti ritrovavi senza parecchi centimetri quadrati di pelle.

Soprattutto d’estate, ogni giorno andavamo in tantissimi a giocare dalla mattina alla sera, utilizzando quasi sempre un solo pallone che prendevamo nelle ACLI; c’era uno tirava che tirava e cercava di fare “nu flo” (fare entrare la palla senza l’uso del tabellone e senza toccare l’anello), gli altri venti o trenta andavano a rimbalzo, e, grazie alla mia altezza. spesso il pallone era in mano mia; fatalmente, ogni tanto il pallone “tastava” cioè andava a finire nella campagna sottostante il cui proprietario era soprannominato ”Tastaferr’”; delle volte, per la pendenza della vallata scivolava giù, verso l’attuale Piscina Comunale e trovarlo era un’impresa; ma quando, evitando le ire del proprietario, si risaliva in Villa coperti di graffi e di fango, si continuava a giocare come se nulla fosse accaduto. Tornavamo a casa zuppi di sudore, con i piedi indolenziti perché non portavamo idonee scarpe da gioco, ma felici ed affamati.

L’autunno successivo, sulla spinta degli “eroici” dirigenti del periodo ( eroici perché in mano non avevano niente, solo voglia, buona volontà e disponibilità) fu deciso di riunire i più alti e, comunque, i più volenterosi di noi, per cominciare per la prima volta un serio (?) allenamento per la preparazione ad un campionato regionale, forse, juniores; avremmo dovuto affrontare, pensate un po’, gli squadroni di Roseto, Teramo e Chieti che allora erano su un altro pianeta, specie se ad affrontarli eravamo noi che non eravamo alle elementari, ma addirittura all’asilo della pallacanestro. Pensate che dalle tre squadre citate negli anni successivi sono usciti giocatori che hanno giocato in serie A…immaginate un po’ chi avremmo dovuto affrontare!

Non ricordo né gli allenamenti ( li abbiamo mai fatti?), né gli allenatori ( credo che uno fosse Nino Bindi e c’era anche il prof. Pasqualino Ferretti che di pallacanestro ne capiva meno di me).

Ricordo con strazio la prima partita contro gli juniores del Teramo: loro erano tutti molto alti, giocavano da anni, conoscevano bene il gioco e gli schemi; a noi invece quello che avremmo dovuto fare ce le dissero solo una mezzora prima del fischio d’inizio; io ebbi solo le seguenti istruzioni, ricevute ( mi sembra di ricordare) da Ivan D’Alessio, che collaborava ogni tanto nell’allenamento:- Tu in attacco mettiti sulla linea di tiro libero, spalle a canestro, quando ti passano la palla fa un solo palleggio, fingi di andare a destra e poi vai a sinistra, supera chi ti marca e tira-. Così feci, finta a destra, giro alla sinistra del mio difensore….ma Ivan non mi aveva detto che dietro ce ne stava un altro ancora più alto di chi mi marcava e così ci andai a sbattere contro, facendo passi e perdendo la palla. Dopo due o tre svarioni del genere, chiesi al prof. Ferretti, che fungeva da allenatore, di uscire e lui, tutto brontolando, guardando come suo solito per terra e  con in mano l’eterna nazionale senza filtro ( con cui accendeva, di continuo, le sigarette con il filtro che aveva nell’altra tasca), mi disse:- Sì va fuori e va a pisc….!-.

Credo proprio, anche se non mi sembra se ne siano conservati i documenti ufficiali, che perdemmo sonoramente tutte le partite che giocammo; gli inizi, è vero, sono duri, ma quante legnate…..

Continuammo anche dopo il campionato a giocare insieme, con grande entusiasmo ma senza il consiglio e la guida di un allenatore, per cui non facevamo che ripetere gli stessi errori e non miglioravamo mai.

L’anno successivo, nuovo campionato. Si doveva andare in tutta la regione a giocare: Ortona, Chieti, L’Aquila, Roseto, Giulianova, Campli. Potevamo muoverci sempre grazie alla buona volontà della maggior parte dei dirigenti che ho citato prima. In particolare ricordo Vittorio Ferretti e la sua Ford Escort grigia, che caricava sempre al massimo per accompagnarci dovunque; oltre a correre i rischi che di solito si affrontavano sulle dissestate strade abruzzesi del tempo, Vittorio ne correva uno in particolare, quando trasportava un nostro amico: Nicolino Assogna, detto Magnasalat’. Nicolino soffriva di mal d’auto e, a metà percorso circa, trattieni che ti trattieni, ad un certo punto scoppiava. Noi, per triste esperienze personali, ci eravamo specializzati e sincronizzati, a cominciare da chi doveva sorvegliarlo; una volta che dal viso si presagiva l’esplosione partiva l’allarme e allora…1) fermata immediata dell’auto sul ciglio della strada, 2) apertura immediata delle portiere con uscita in volata di tutti , 3) allontanamento dall’auto; 4) uscita dello spruzzo con annessi e connessi; 5) uscita di Nicolino, bianco come un cencio. Poteva qualche ora dopo giocare bene e resistere a lungo?

Negli anni successivi, dopo tante sconfitte cominciarono a giungere le vittorie; noi, da prima squadra, riuscimmo a battere addirittura una squadra di Roseto!!! Eravamo prima squadra perché in tanti avevano abbandonato lo sport per ragioni anagrafiche, pur continuando a stare vicino alla pallacanestro.

 E poi, ultimato il liceo, partiti per le varie Università, anche noi smettemmo di giocare; intanto avevamo conosciuto il mondo dello sport USA, visto grandi giocatori nei tornei estivi di Roseto e Chieti, seguito tante partite in TV: ormai la pallacanestro era diventato basket.

Per me, quella folgorazione iniziale si trasformò nel tempo in grande amore. Purtroppo (o meno male, direbbero tanti) smisi completamente l’attività nel 1971, ma quel pallone Voit liscio come la testa di un calvo è rimasto nel mio cuore, insieme alle scarpette Superga di stoffa con la targhetta verde dietro, a Tonino Manco che fermava sempre il cronometro quando stavamo perdendo e non lo fermava mai quando vincevamo, a Don Giuseppe, ai professori ed agli amici che non ci sono più.

La pallacanestro ( con la Juventus) rimane il  mio grande amore, ma Caterì, sto parlando solo di sport, sia chiaro.

CLAUDIO VARANI