90 anni fa il premio che fa storia

DELEDDA, DA NOBEL EPPURE DIMENTICATA

Da qualche tempo mi scopro casualmente a rivivere memorabili eventi storici e letterari che hanno dato corpo e forma alla nostra storia e cultura identificative della nostra civiltà  e che invece di radicarsi nella intellettualità delle intelligenze della nostra cultura, cadono in un abbandono quasi di morte. La memoria dei cultori si fa fumo, il suo vaso un alambicco  i cui vapori si dissolvono senza rimembranze. L’oblio rischia di cancellare le eccelse testimonianze di quei personaggi nobili, sapienti e coraggiosi che hanno lasciato e tramandato il loro esempio e i loro pensieri, scritti, azioni che si sarebbe presunto potessero durare quali testimonianze divulgative. Involve invece tutte queste cose l’oblio della notte dell’anima.

Ho onorato tante ricorrenze ed oggi sento di rendere onore ed omaggio anche alla particolare ricorrenza del conferimento del meritatissimo Premio Nobel alla grande scrittrice Grazia Deledda, icona della cultura letteraria e della nostra identità culturale.

Sono passati 90 anni da quando Grazia Deledda venne insignita del Nobel per la Letteratura. Ma l’autrice sarda di fatto è un fantasma dei programmi scolastici italiani. Per la critica letteraria invece la sua voce è ancora attuale e meriterebbe di essere analizzata. Già nel 1913 fu segnalata da Ferdinando Martini, docente di Letteratura alla Normale di Pisa e accademico della Crusca ed è dello stesso Martini la riproposizione a più riprese fino al 1918. Anche l’Accademia dei Lincei la mette in lista nel 1921. Ma fu solo nel 1926 che la nuorese Grazia Deledda, autodidatta, autrice di capolavori come  Elias Portolu e Canne al vento oltre che di 350 novelle, più di 30 romanzi e numerose poesie, si aggiudicò il Nobel per la Letteratura. Novant’anni dopo, Deledda è la scrittrice sarda più famosa al mondo, nonché l’unica italiana ad aver vinto il Nobel, dopo Carducci e prima di Pirandello “per la sua ispirazione idealistica, scritta con raffigurazioni di plastica chiarezze della vita della sua isola  nativa, con profonda comprensione degli umani problemi“. Dopo di lei, solo un’altra italiana ha vinto: Rita Levi Montalcini.

Eppure, oggi, questa autrice sembra essere invisibile: è marginale nei programmi scolastici, dimenticata dai mezzi di comunicazione e quasi rimossa dalla nostra memoria collettiva. Nel  Parlamento è in discussione una mozione per fare uscire la Deledda dal cono d’ombra ed impegnare il governo ad individuare idonee iniziative per celebrare l’anniversario, farla conoscere su scala nazionale, farne studiare nelle scuole la figura e l’opera. Ma perché oggi un Millenial dovrebbe aprire le pagine di opere come “La Madre” o “Marianna Sirca” o – per dirla con una domanda degna di un film di Nanni Moretti – “qual è l’attualità di Grazia Deledda?”. È una donna che ha saputo con la sua forza di volontà e caparbietà mettere a frutto il proprio talento. In questo c’è l’attualità di forza, umiltà e capacità che le donne possono offrire a questo Paese. Poi c’è l’attualità letteraria: dolore passione, senso dell’esistenza umana, ricerca cattolica.  Ho posto particolare attenzione su alcune sue opere come Il vecchio e la montagna, Elias Portolu, Cenere e Canne al vento. Quattro romanzi scelti in modo da farci conoscere la narrativa della Deledda in quella specie che fu popolare di là dai  confini e che le valse il Premio Nobel: in apparenza epica, in sostanza lirica, avendo la scrittrice trasfigurato la sua Sardegna per farla terra di personaggi  nei quali si personificano i suoi sentimenti. La sua arte non è certo inconsapevole, primitiva, barbarica, senza radici di cultura, fuori di ogni tradizione e di ogni costume letterario. Si formò alla scuola del naturalismo italiano e straniero cercando i più ardui esemplari francesi o russi per irrobustire le proprie facoltà di narratrice con l’ostinato proposito  di riuscire scrittrice  epica. Dai 15 ai 20 anni non legge classici se non il Boccaccio, il Tasso, Goldoni, Metastasio, Manzoni, legge e rilegge gli scrittori più popolari o famosi al suo tempo, Victor Hugo, Balzac, Dumas, D’annunzio, Cavallottti, Verga, Fogazzaro,  Negri e così via. I suoi giudizi mostrano il disordine delle sua cultura nella quale non manca lo studio del folklore sardo importantissimo non solo perché ci ha dato una notevole raccolta delle leggende e delle costumanze della Barbagia, ma anche perché ha messo la scrittrice in più diretta comunicazione con il suo popolo. Così noi possiamo comprendere meglio quale sia stata nella sua opera la parte della Sardegna.

Sarda ella è nella sua formazione in questo mezzo isolano dove gli istinti trovano sempre l’ostacolo delle leggi, dei costumi, delle credenze tradizionali e del timore religioso, anch’ella pronta alla passione d’amore, all’abbandono dei sensi come una sua creatura d’arte, con la stessa coscienza della colpa, con la stessa paura del peccato. Voglio dire insomma che un tale drammatico contrasto tra il piacere ed il dovere, in Sardegna nasce naturalmente nello spirito di ciascun e si manifesta  in forme religiose, qui, dove la famiglia e la patria sono considerati istituti sacri dati da Dio agli uomini per va loro salvezza, dove il sentimento dell’onore e della giustizia prorompe in violenza se mai le buone leggi dei padri siano offese e dove la colpa non può essere commessa senza questa coscienza, che è colpa, che è peccato e che dovrà essere espiata.

La Deledda sentì senza dubbio la lezione del Verga e cercò nella sua Sardegna creature che riscuotessero  in sé gli antichi drammi dell’amore, della famiglia, della società con timor religioso. E quel folklore che aveva studiato diventò nei suoi primi romanzi sfondo alla vicenda da lei rappresentata, si fuse e si confuse nel paesaggio.

 L’isola era la grande scena sulla quale recitavano la loro parte terrena creature dal nome sardo ma ricche di pura  umanità. Concentrava la lente del suo intelletto su taluni tipi piuttosto che su altri, sulle peccatrici e sui peccatori d’amore, su quelle sue donne che attendono coi sensi inquieti l’uomo ignoto, impetuoso come il turbine, al quale cederanno con un’acuta e pungente coscienza del peccato o al quale resisteranno vincendo il languore dell’anima. Quando scrisse Elias Portolu questa Sardegna della sua fantasia era una sua sicura conquista: sullo sfondo di quel paesaggio rosso di bagliori, verde di pascoli, vasto d’orizzonte, aspro di montagne vivono ormai solo le creature nelle quali riconosce i propri sentimenti nella dialettica con la società che ha intorno. Sono personaggi mossi solo dalla passione d’amore che nasce dai sensi e si esalta fino a diventare stimolo di volontà cieca e prepotente contro ogni divieto, senz’altro timore che quello di Dio: una passione che a questi uomini e a queste donne d’indomabile istinto sembra una fatalità contro la quale ogni resistenza è vana, un dono di piena vita che bisogna godere se anche dovrà essere scontato come una colpa. Quale voce deve ascoltare Elias Portolu, tornato dal carcere al quale fu condannato innocente, vede la fidanzata del fratello e guardandola negli occhi sente che una stessa passione li travolge, li forza a cercarsi, a baciarsi, a congiungersi? Sono gli anni della sua rapida fama, dei libri che furono giudicati, ciascuno, un capolavoro, Cenere, La via del male, L’edera, Il nostro padrone, Canne al vento,  Le colpe altrui, Marianna Sirca. Il suo mondo diventa sempre più ampio sebbene i personaggi spesso si somiglino, e la sua arte sembra svolgersi in variazioni sempre più complesse rimanendo fondamentalmente sempre uguale. È anche vero che aveva eletto Pellico suo maestro quando desiderava scrivere con semplicità, ma ricordava la lettura della Bibbia, di Omero e di Shakespeare quando voleva quella rialzare quella sua prosa semplice con tono e accento profetico, epico, drammatico. Ed ancora Il Dio dei viventi: il dramma del rimorso.

È l’accento sardo quello che salva i suoi primi libri, è il silenzio delle grandi distese della sua isola non vinto mai dal frastuono cittadino del continente quello che le dà il bisogno delle lunghe meditazioni, degli ostinati esami di coscienza, delle  parole che abbiano una forza espressiva patriarcale. I suoi maestri supremi furono senza dubbio il Verga e il Dostojevssij; ma si cercherebbe invano derivazioni dai romanzi di quei due sommi, che solo le insegnarono a guardare con occhi sgombri e con timore religioso la vita e la morte, a essere quale la sua gente l’aveva creata, saggia dell’antica saggezza che regge anche l’animo del pastore nella sua tanca.

Alfio Carta