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- Pubblicato Giovedì, 21 Luglio 2016
- Scritto da Santino Verna
HA RACCONTATO L'ITALIA CON SOTTILE IRONIA
INDRO MONTANELLI, IL GRANDE GIORNALISTA DEL XX SECOLO
A quindici anni dalla morte, avvenuta il 22 luglio 2001, cinquantuno giorni prima dell’episodio delle Torri Gemelle che avrebbe senz’altro descritto e commentato, finiva la giornata terrena, Indro Montanelli, uno dei protagonisti del XX secolo. Definirlo il più grande giornalista del secolo breve potrebbe essere un’esagerazione, dettata dalla simpatia, ma definirlo tra i più grandi è senz’altro verità.
Indro Montanelli nacque nel 1909 a Fucecchio, tra Firenze e Pisa, da Sestilio e Maddalena Doddoli. Il padre gli impose quel nome strano da una divinità indiana, Indra. Ma gli fu aggiunto il nome di Alessandro, in ossequio ai principi cattolici. Ed ebbe pure il nome Schizogene (tra le traduzioni “generatore di divisione). Proveniente da una famiglia benestante e liberale, Indro compì studi classici e si laureò in giurisprudenza a Firenze. Cominciò subito l’attività giornalistica, in Italia e all’estero e durante il Ventennio, come non pochi intellettuali, aderì al fascismo. Mantenne sempre buoni rapporti con Fucecchio, anche se la professione lo aveva portato lontano, e conobbe lo storico dell’arte Alessandro Marabottini, docente di Storia dell’Arte Moderna negli atenei di Messina e Perugia, romano di adozione, la cui collezione da pochi mesi è stata musealizzata presso Palazzo Baldeschi a Perugia, simbolicamente donata agli studenti.
Montanelli ha raccontato l’Italia, sempre con una punta di ironia e forte anticonformismo. Celebre è rimasta la frase, peraltro non sua, “turiamoci il naso e votiamo D.C.”, proferita negli anni ’70, quando era una moda andare a sinistra, non per solidarietà verso gli ultimi e gli esclusi (o comunque, non solo per quello), ma per il gusto di mettersi contro la Balena Bianca. Indro rimase sempre liberale, ma di quei liberali di vecchio stampo come Giuseppe Prezzolini e Camillo Benso di Cavour.
Travagliato il rapporto con la fede. La madre era molto religiosa, e il figlio si definì sempre laico. Si scontrò con il gesuita Padre Scurani, e quando il Card. Carlo Maria Martini, dal mondo accademico veniva chiamato da S. Giovanni Paolo II alla sede di Milano, Montanelli lo definì “pastore più di sinedrio, che di gregge”. Tra i Papi gli erano simpatici S. Giovanni XXIII e S. Giovanni Paolo II, e gli erano antipatici Pio XII e il Beato Paolo VI. Il primo perché per lui era l’ultimo principe del Rinascimento, il secondo, a torto, fu ribattezzato “Paolo mesto”. Ma qui Indro Montanelli sbagliava genere, numero e caso, perché Papa Montini è stato il Pontefice della gioia, il primo Vicario di Cristo che ha scritto esplicitamente sul gaudio, il Papa che ha costruito, con sacrificio, impegno e dolore, la strada, poi percorsa da S. Giovanni Paolo II. Papa Francesco gli sarebbe senz’altro piaciuto.
Legato sentimentalmente a diverse simpatie, nel 1974 sposò civilmente dopo anni di convivenza, Colette Rosselli Cacciapuoti, di padre napoletano e madre inglese, le cui vacanze durante la fanciullezza avevano per luogo la Versilia, anche lei giornalista. Vivevano tra Milano e Roma, e nella capitale l’abitazione era in Piazza Navona, accanto alla chiesa (difficilmente visitata) di Nostra Signora del Sacro Cuore, oscurata dalla dirimpettaia S. Agnese in Agone e dalle due immortali fontane. Passavano le vacanze a Montemarcello, semisconosciuto paese della Riviera di Levante e Cortina d’Ampezzo, dove avevano la possibilità di fare passeggiate in montagna.
Nel 1977, Montanelli subì un attentato. Erano gli anni delle Brigate Rosse, e continuava la Guerra Fredda. Indro raccontava benissimo quegli anni e tutti riuscivano a capirlo. Fu contento di Sandro Pertini, Presidente della Repubblica, ma non gli risparmiò qualche critica nell’affresco, parlando di letture poco intellettuali durante il confino in Francia e della leggendaria pipa, mai accesa, ma messa in bocca come una matita o una penna, per dipingere meglio il personaggio.
Nel 1994, cominciò la seconda giovinezza di Montanelli, con la discesa in campo di Silvio Berlusconi. Dopo la vibrante esperienza di imprenditore, mentre si sgretolava la Balena Bianca con i partiti che gli facevano corona, complice Tangentopoli, ecco la nascita di “Forza Italia”. Qualcuno si sarebbe aspettato l’ingresso del patriarca dei giornalisti italiani. Sarebbe stato l’alter ego di Emilio Fede, uno dei protagonisti dell’infanzia di mamma RAI, passato a Mediaset. E invece, Montanelli, criticò aspramente il leader degli azzurri, ribadendo l’appartenenza alla destra, ma non “a questa destra”, rea di essersi definita liberale. Montanelli fece capire di appartenere ad una destra mai esistita, liberale, come quella di Sandro Paternostro, il corrispondente da Londra, in quegli anni impegnato a ricostruire il suo personaggio che accentuava gli aspetti già presentati quando compariva sul piccolo schermo con i capelli impomatati e la moda all’inglese sul fisico asciutto. Montanelli uscì dal “Giornale” e tornò al “Corriere”, il giornale di stampo liberale, della borghesia milanese, dove teneva l’appuntamento quotidiano con i lettori. Gli chiedevano spesso notizie di storia, soprattutto italiana, e lui rispondeva da autentico giornalista, senza naturalmente l’imbastimento accademico, ma sempre con rigore e preparazione.
Soffrì molto nel 1996 per la malattia e la morte della moglie, di due anni più giovane. Continuava ad apparire in video, ogni sabato, su TMC. Presto il terzo polo televisivo sarebbe diventato La7. E se ne andò, nel mese in cui si sarebbe congedato dai lettori, i veri proprietari come diceva lui, per la pausa estiva.
Montanelli fu sempre affezionato alla Olivetti Lettera 22. Avrebbe fatto difficoltà ad usare il computer. Lo avrebbe imparato in un baleno, ma il suo rapporto con i lettori doveva avere il timbro della dattiloscrivente, presente sul suo tavolo di lavoro. Ed è rimasto l’attributo della sua icona. Montanelli non è mai diventato un cult dei giovani, e tantomeno dei ragazzi. Forse non lo è neppure degli adulti, e questo diventa la prova del nove di un mondo segnato dall’analfabetismo di ritorno, dove facciamo spesso l’errore di considerare la cultura come passato. Invece è il futuro.
SANTINO VERNA