L'amara solitudine del morente

ANCHE LA MORTE È DEGNA DI ESSERE VISSUTA. RIFLESSIONE  SULL’ULTIMO DEI TABU’

Nei momenti di  sempre  vigile  astrazione  dalle affettuose e premurose cure alla mia dolce e sofferente Emiliana, nella  invernale atmosfera brumosa ed umidiccia, il mio tempo si consuma nella rilettura della vita e delle opere di Seneca, le cui verità hanno duemila anni, ma andrebbero ripassate spesso. Seneca, famoso filosofo e letterato latino, coetaneo di Cristo, precettore e poi  consigliere di Nerone, con le sue tragedie e soprattutto con le epistole al suo discepolo ed amico Lucilio, affronta temi di carattere universale: la felicità e la fortuna, la gioventù e la vecchiaia, la vita e la morte, attingendo al pensiero di Platone e di Aristotele.

Mi sono in particolare soffermato sulla famosa opera delle “Epistulae morales ad Lucilium”, che non è una finzione letteraria, ma un epistolario reale, integrato da lettere fittizie, uno scambio epistolare che permette di istituire  un “colloquium” che spesso si conclude con una sentenza, quale spunto di meditazione. 

E fingo di immaginare che nel recente crollo della “Casa del Moralista” a Pompei, città natale di Lucilio,   siano rinvenute le sue epistole al famoso filosofo e letterato Seneca. Così, con duemila anni di ritardo, impersonando il ruolo  di Lucilio, attraverso la mia sommessa voce, completo quella corrispondenza e, dialogando con Seneca, scruto dentro la  mia coscienza, inerpicandomi indegnamente su quel genere di cultura letteraria latina che, come quelle lettere di carattere filosofico, forniscono un esempio di vita che sul piano pedagogico è più efficace dell’insegnamento dottrinale.

Mi sono immerso in una  esplorazione e riflessione su quei temi universali, un attraente e difficile esercizio  che ha soffermato la mia attenzione – quasi un istintivo richiamo – sul grande e misterioso tema della morte, ammesso che io abbia le capacità lessicali e filosofiche di addentrarmi in questa ardua prova: la morte, appunto. Un tema proibito ed indecente, che non si addice ad un vecchio incanutito pensatore come me. Ma non credo sia esatto. C’è follia in tutto questo, o irragionevolezza? Oppure soltanto il coraggio di essere se stessi, in una mesta riflessione sulla solitudine in cui ci getta la malattia della vecchiaia? Così, con l’irruzione violenta di un  tabù, anzi del Tabù, vorrei parlare proprio di quel tema proibito.

Dicevo, Seneca, di volermi indegnamente accingermi a completare la nostra corrispondenza, il nostro dialogo. E a dirti delle ultime ore di mio padre morto tragicamente. Gli ero vicino. Il suo corpo si era adeguato alla fragilità del carattere; le sue piume di cristallo si erano scheggiate (aveva la delicatezza degli spiriti delicati). Scrivo di mio padre, ma so di parlare di ogni padre perduto, non c’è cosa più universale degli affetti privati. E se il mondo ti istiga a rendere pubblico ciò che è intimo, tanto vale esibire gli affetti più intimi. Voleva tornare a casa, stava svanendo la sua mente: non era demenza, ma una traccia estrema di lucidità ed una richiesta disperata di aiuto: chiedeva di tornare in sé, di ritrovare il suo corpo, quello tutto intero inutilmente insultato e sfregiato dal bisturi, e la sua mente. Usava la metafora più elementare, la casa, per invocare il ritorno. Lo vedevo tornato bambino, una sensazione anche dolce, senza però poterlo salvare dall’oltraggio della  malattia. Ma non lo sentivo solo.

La solitudine del morente e solo apparente. Sul letto di morte trovano posto accanto al morente soltanto i suoi affetti più profondi e radicali, mentre le sue unghie si consumano sulla parete inclinata della vita per trattenere gli ultimi istanti, per respirarli, assaporarli, cullarli ancora per un attimo. Sul letto di morte non  c’è spazio per null’altro. Figuriamoci per la letteratura, quel  passatempo nobile che l’umanità  si è inventata per  mettere fra parentesi proprio lei e la morte. Ma sul letto di morte qualche scrittore, con alcuni anni di anticipo sul proprio congedo, ha scritto pagine davvero immortali, sfiorando l’atto estremo per interposta persona, giungendo fino alle soglie dell’indicibile, del silenzio meta-letterario. Fra tutti, Lev Nikolàevic Tolstoj. “La morte di Ivan Il’ic” non è una lapide che seppellisce il protagonista, è la sua estrema realizzazione di uomo, il momento in cui il diretto interessato ha finalmente contezza dell’assurdità della vita, della  sua vuotezza e inutilità tuffata nel mare della solitudine. C’è un cammino al confine tra la vita e la morte. Chi sta per morire,  nel misterioso viaggio, sente che il sentiero ha un’unica direzione. Si va avanti e basta: verso un eterno grande UNO che non è dato conoscere né capire, ma c’è chi  ha fatto il passo indietro ed è tornato. Ed io sono fra  questi. Chi è tornato dalla morte, venendo via da uno stato di coma, da valori di azoto e globuli incompatibili con la vita, fa sempre lo stesso racconto di luci e di incontri. Ha rivisto se stesso bambino e, quando si viene restituiti alla coscienza, si ritrova fra le braccia della “mamma”.

È un’esperienza che accade spesso ai morenti, è la veggenza dell’ora estrema. La solitudine del morente è solo apparente e riguarda il mondo dei  viventi. Vengono a prenderci i nostri morti quando è l’ora di morire.     In punto di morte c’è chi vede il proprio padre o la propria madre; perché quando si muore si torna bambini ed i genitori vengono a prelevarti per accompagnarti a casa. Quando la vita sta per abbandonarci, il più caro fra i nostri cari scomparsi viene a prenderci per il passaggio all’altra riva. Aspetta sulla soglia, nella luce,   invitante nello sguardo, a volte tende la mano e il  morente lo chiama stupito ad alta voce, ha  desiderio di seguirlo, qualcosa lo trattiene al di qua della soglia, fino a che si libera e procede verso il suo accompagnatore definitivo. Lo sappiamo in tanti, siamo stati più volte testimoni di questo, ma di solito non ne parliamo. Quando il morente è alla fine, la persona più amata che ha perso in vita gli riappare e lo conduce oltre. Non la trovi,  Seneca,  una promessa magnifica?  Non si muore soli, al buio, nella cecità estrema della vita, ma mediante una visione, una fonte di luce, e si va via in compagnia. Quella diffusa esperienza elementare, così vera perché non si ha voglia di fingere in punto di morte, racconta il destino della nostra vita più di tante teorie scientifiche o spiegazioni mediche. Lo spiegano con il delirio dell’agonia.  L’estrema concentrazione sulla vita  che se ne va, dicono, fa rivivere il trauma di quando morì la persona più cara. È allucinazione onirica, sostengono, anche se ha le sembianze della veggenza. Ma è una spiegazione che non spiega i moti dell’anima, le misteriose visioni della mente e la meticolosa ricorrenza di questi  incontri.

Ha ragione  Eraclito di Efeso che tu mi hai fatto conoscere: “Gli uomini quando muoiono sono attesi da cose che essi non sperano né suppongono“. È bello sapere che chi è scomparso non è inghiottito nel nulla o nel buco senza fondo del tempo passato; ma vive come un’idea (l’eidos di Origene); è presente nella  vita dei suoi cari. Qualcosa sopravvive alla vita, e chi ama porta dentro di sé la presenza dell’amato: l’amore è il suo respiro, amare è come dire “tu vivi anche se non sei più qui, nel  corpo e sulla terra”; è una percezione di presenza che senti nel pensiero e che pensi nel sentire. Non sono solo mentre ti scrivo, Seneca, e non prendermi per pazzo. Sono con noi coloro che amammo e da cui fummo amati, restano davvero presenti.

Non trovi infine gloriosa la promessa di trasmissione della vita nella morte, da padre in figlio? C’è un passaggio di consegne, un ciclo che si rinnova, un procedere mano nella mano oltre la vita, tramite le generazioni. L’amore non è un modo di dire che accompagna alcuni momenti dell’esistenza, ma il filo conduttore tenace e sommerso che guida la vita e non ne permette la dispersione. Dovremmo invertire i saluti, Seneca, e dirci addio quando ci allontaniamo provvisoriamente e arrivederci quando ci allontaniamo definitivamente. Di più non sappiamo dire; però davanti alla disperata euforia dei nostri giorni, dove l’essere sparisce nel nulla e si gode la vita al consumo, una strana allegria mi prende nel sapere che la morte restituisce la vita attraverso l’amore. C’è qualcosa, c’è qualcuno che rende non solo la vita degna di essere vissuta, ma perfino la morte. Come il sole d’inverno, c’è pure l’estrema allegria dei congedi.

            Il padre ci aspetta fuori, il figlio ci aspetta dentro.

Alfio Carta