LA MIA ATRI

LA CITTA' RACCONTATA CON LA MEMORIA DEL CUORE

Vorrei fare un dono ai miei tre nipotini, che come tutti i bambini del 2000, non sono abituati ad ascoltare i racconti del passato sia perché preferiscono giocare con i tanti  strumenti dell’odierna tecnologia, sia perché (diciamoci la verità)  non c’è più chi gliene parla. Perciò, una volta tanto, come si faceva ai miei tempi, è il loro “nonnone” che vuole raccontare loro come si viveva negli anni a cavallo del 1960, come era la sua Atri, come erano i suoi giochi e chi erano i suoi amici.

Non ho intenzione di voler insegnare  né, tantomeno, apparire come chi ritiene che il proprio passato e la propria gioventù siano stati assolutamente migliori della vita della gioventù di oggi: no, sono bellissimi anche gli anni che viviamo, che vivono, ma vorrei solo aprire una piccola finestra da cui far intravedere “nonno Claio” come era, quando aveva dieci anni o giù di lì, un po’ per far conoscere, un po’ per far capire loro come tanti bambini che avevano la loro età riuscissero a divertirsi, con tanto, tanto poco.

Così potranno avere una piccola idea, anzi un’idea spero sufficiente, di come si potesse vivere tranquillamente in una bella cittadina di provincia, ancora immersa nelle abitudine e nei modi di vita del secolo precedente, ma che si stava prepotentemente aprendo ai nuovi anni, ad un futuro ricco di aspettative e speranze; la vita si svolgeva ancora all’interno delle mura e delle quattro porte, più o meno reali, ma ci si cominciava a guardare intorno, si costruivano nuove strade, un nuovo quartiere: Sant’Antonio, un nuovo ospedale; oltretutto, i neonati mezzi di comunicazione di massa, che ancora pochi potevano permettersi, stavano facendo conoscere pian piano nuovi modelli di vita e nuove idee.

Noi bambini di 8/10 anni, dicevo, non avvertivamo i cambiamenti in corso: i nostri genitori, dopo le tremende esperienze della guerra, cercavano di farci crescere spensierati, sereni, pensando solo alla scuola e al gioco. Certo nelle case dove c’era la miseria i problemi erano molto diversi, ma, a quanto ricordo, a Porta Macelli dove ho sempre vissuto e dove molti avevano seri problemi di sopravvivenza, fra noi ragazzi le differenze economiche e sociali non pesavano e non venivano rilevate: si giocava tutti insieme, si viveva insieme senza problemi, anche perché non  c’era assoluto bisogno del denaro per divertirci e per giocare.

Il mio racconto dovrà per forza dividersi in 6 parti, altrimenti i miei nipotini si annoieranno: spero che gradiranno il mio dono e ascolteranno tutto. Certo i ricordi sono tanti, ma la memoria comincia a perdere qualche colpo, per cui qualcosa non dirò, ricorderò forse qualcosa in maniera errata o alla mia maniera, comunque procederò velocemente, con brevi pennellate, che spero contengano per Samuel, Sara e Sofia Anna tutti i colori dell’iride della mia gioventù. Voglio ancora una volta precisare che parlerò solo di un periodo, che grosso modo va dal 1958 alla mia terza media (1965): quello che è successo prima francamente ricordo poco; gli anni successivi, stranamente, li ricordo ancora meno.

PORTA MACELLI, PICCOLO MONDO ANTICO...   

Il mio quartiere era delimitato da tre vie: Via Sant’Agostino, Via Macelli e Via Cherubini, e tre vicoli: Vico Trolii, Vico Grue e Vico Prepositi. Magari le mappe catastali non individuano il quartiere con tali confini, ma per noi ragazzi Porta Macelli era solo questo. Non si andava oltre, se non per due motivi: 1) per andare a scuola a Ricciconti, passando per Piazza Martella e Via Baiocchi; 2) la domenica mattina,  per fare colazione con la buona pizza bianca con la mortadella di Rosa, in Piazza del Duomo, perché alla messa del fanciullo che si svolgeva alle 8 a Sant’Agostino,  a causa del restauro in corso della Cattedrale, si doveva andare completamente digiuni. Per quanto mi riguarda personalmente, inoltre, tutti i miei parenti vivevano a Porta Macelli e, pertanto, non c’era alcuna necessità di spostarsi al di fuori del quartiere.

 Io non ho mai varcato tali confini ideali, non ho mai pensato di giocare nella “Piazzetta” (Piazza Martella) o nella “Piazza”(Piazza Duomo), benchè a noi vicinissime; men che meno siamo mai andati a Capo D’Atri o a San Domenico: erano off limits.

Ricordo abbastanza bene gli abitanti del quartiere in cui si viveva più ( pochi) o meno (tanti) bene. Ho già detto che la miseria non mancava, anche quella nera; a dire la verità, non ricordo che qualcuno di Porta Macelli andasse a chiedere la carità nelle case dei più abbienti, ma ho una chiarissima memoria di molti “poveretti” di altri quartieri che venivano  a casa Angelini-Pierangeli per un po’ d’olio o per qualche lira: non strisciavano a terra come tanto spesso si vede fare oggi, ma entravano silenziosamente, con discrezione nel chiedere, pazienza nell’attesa, ringraziavano e benedicevano sempre nell’andare via.

So che alcuni di loro hanno lottato strenuamente per tirare avanti, hanno “tirato la vita con i denti” e sono riusciti anche a far studiare i figli, alcuni dei quali sono diventati stimati professionisti. Insomma, il loro atteggiamento mi fa venire in mente solo un termine: DIGNITA’, anche nel più grave bisogno, aggiungendo a tale termine anche: RISPETTO, e, in alcuni di loro, anche ORGOGLIO, che forse, inconsciamente, derivava dall’ appartenere ad una città dai nobili e remoti natali.

Mi è venuto  di colpo in mente un esempio di questi atteggiamenti, il cui ricordo molto labile mi è stato rinverdito da parecchie testimonianze recenti di suoi amici e parenti: Antonio Colleluori. Ferroviere in pensione, capotreno negli anni 30/40 in servizio a Roma, per varie vicissitudini era tornato ad Atri insieme alla amatissima moglie Marietta di Donna F’licie, ottima cuoca come sua madre; insieme vivevano in due buie stanzette all’inizio di Via Macelli. Intelligente e sensibile, amava anche la caccia e leggere e scrivere romanzi: l’ultima sua opera è stato il romanzo Tatillo e Sasora. Ebbene, a me non appariva affatto benestante, tutt’altro: l’essere entrato alcune volte a casa sua, il vederlo indossare sempre  un unico abito, via via sempre più liso, l’aver spesso visitato la consorte che non stava bene, mi facevano pensare ad una vita piena di ( si direbbe oggi) problemi. Ma era visibile a tutti l’estrema cortesia dei modi di Antonio, la distinzione, il suo incedere, nonostante tutto, sempre a testa alta. Ricordo un uomo intelligente, pieno di dignità ed anche orgoglio.

 A dire il vero, mi sembra di ricordare che simili comportamenti fossero comuni anche alla maggior parte degli abitanti del mio quartiere.

A Porta Macelli, c’erano, ovviamente, anche alcune famiglie veramente benestanti, prevalentemente professionisti che erano anche proprietari terrieri; altre che oggi si direbbe appartenenti alla media-piccola borghesia; e c’erano anche  gli artigiani, che è ingiusto chiamare così, perché, in genere, erano artisti del legno, del ferro, della stoffa, del mattone. E so che in altri quartieri c’erano i musicisti, i poeti, i pittori, gli scultori e chi più ne ha più ne metta.

Atri era una fucina di talenti; nessuno di loro, che io ricordi, si è arricchito con il proprio lavoro,  ma ne hanno lasciato testimonianze stupende. Dove sono ora? Ce ne sono ancora?

Ho illustrato prima i confini di Porta Macelli. Voglio precisare che Via Cherubini era in terra battuta, senza balaustre, ma delimitato da sbarre di ferro che si incrociavano fino alle attuali scalette, al cui posto c’era un muro di mattoni che noi ragazzi scalavamo sempre per raggiungere la sottostante campagna e per simulare gli scalatori più famosi del tempo. 

Anche Vico Trolii mi sembra fosse prima in terra battuta e poi con il fondo di cemento; Vico Grue, invece, aveva grandi pietroni rotondi, su cui si scivolava ed inciampava continuamente, anche se avevano un drenaggio eccellente.

Entro queste vie e vicoletti trascorrevamo interi pomeriggi, specie d’estate, a giocare, a parlare, a divertirci, insomma.  I “giardinetti”, attuale parcheggio dietro l’edicola, li considerammo di Porta Macelli solo qualche anno più tardi, quando ormai, alunni delle scuole medie, li potevamo raggiungere da soli: erano il surrogato della “Villa”, più vicini e sufficientemente ampi da permettere di fare tutti i giochi di “movimento”; c’era anche il distributore di Liliana La Fratta e sua sorella Concetta,con annessa casetta,  in cui eravamo soliti gonfiare palloni e biciclette.

CLAUDIO VARANI