SUL FILO DELLA MEMORIA...DOLCI RIFLESSIONI

IL SEGRETO DELLA FELICITA’ E IL SENSO DELL’ESSERE

Percepisco la mia esistenza come una lontana  promessa  di bellezza non contaminata dal mondo, come una  sublime illusione che tanto più mi affascina quanto più sono le brutture che ci circondano. Un elogio alla vita. Al gusto di vivere con intensità, con sensualità, con libertà ogni dono, anche il più piccolo, che la quotidianità ci offre. Perché questi regali altro non  sono che il segreto della felicità, chicchi  di  quel sale che è l’essenza della vita stessa. E nei  momenti in cui si avverte la propria fragilità o mi percepisco come uno scomodo convitato, quando arrivati in un’età in  cui guardando il futuro non si vede altro che il proprio passato, forse apprezzare  le cose che non siamo più abituati neanche a guardare, può aiutarci a vivere meglio e soprattutto a sorridere di più. Almeno in fondo al cuore. A farci ritrovare la felicità  che tutti conosciamo e malgrado ciò ci sfugge. Lo spunto di riflessione sul senso dell’esistere me l’offre un illustre, caro amico  che mi scrive una cartolina dall’isola di Skye, la romantica e mitica isola scozzese, a me nota e cara, costellata di paesaggi  brulli e stupende distese sconfinate di erica, la roccia ricoperta di verde che pare un’enorme scogliera franata e di fronte l’oceano con la sua fragorosa immensità: “la mia settimana rubata di vacanze in Scozia”. La parola “rubata” mi blocca il cuore pensando a quell’uomo, che ha consacrato tutta la vita alla ricerca ed agli altri, e mi rendo conto che se si considera il proprio tempo come rubato da qualcuno, non si può apprezzare più niente. Soprattutto quelle cose, anche  piccole, che danno il sale alla vita. Ed allora comincio a contarle queste cose e segnarle in un virtuale libro che diventa un monologo interiore fatto di associazioni di idee in cui si alternano immagini, emozioni, aspirazioni, ricordi che nutrono l’anima e che spesso si condividono. Un semplice elenco di brevi momenti di felicità, di sorpresa, di ispirazioni che spesso ci fanno sorridere, spesso ci danno un tuffo al cuore, lasciando fuori i grandi temi: professione, amore, passione, politica, religione. Momenti per cui vale la pena vivere, sempre oscillanti tra pubblico e privato,  come semplicemente “annaffiare i fiori” o “scendere  dall’aereo di notte a Niamey (l’incantevole zona fluviale del Niger) durante la stagione delle piogge e sentire l’odore  caldo e  speziato della terra africana” ,   ovvero tra un piacere a disposizione di chiunque e uno  che pochi  possono condividere. Un viaggio a ritroso, dentro di me, alla ricerca dei ricordi più lontani.

Pur  non alimentandomi di questa suggestione, sono  un tifoso del tempo passato e non capisco il perché di tanta attesa per il tempo futuro. Gli stessi auguri che ci scambiamo a fine anno riempiono le case, strade, bar e anche i luoghi di lavoro, esprimono una catasta di attese di un futuro magico, miracoloso. È buona cosa augurarci un 2016 senza malattie, abbandoni affettivi, lutti. E aspettarci tutto ciò che allieta la vita. Ci muoviamo però nell’incertezza più assoluta che appaga solo la nostra fantasia che costruisce nelle nostre zucche sogni e chimere. Forse di attese si vive o meglio si pensa di vivere e così ritorniamo spesso bambini che giocano con il “domani” e  basta. Diamo l’impressione di avere fretta persino nel far passare il tempo  con l’attesa che il momento che sta per arrivare sia diverso, migliore. In questo modo non ce ne accorgiamo che la  vita si accorcia , si consuma più velocemente. Dovremmo almeno far tesoro del tempo  e non buttarlo via con indebite  proiezioni future. Ricordare che i giorni vissuti sono la nostra piccola storia, sono il tempo dei nostri incontri e scelte. La memoria è un archivio che conserva il passato, che dà senso al presente e prepara la necessaria saggezza per avvicinarci al futuro. Perché allora buttare il passato, segregarlo nell’oblio? Perché ipotecare che la felicità viene sempre dopo, in un tempo che deve venire?  Il passato è ricchezza di ricordi che, richiamati alla mente, riattivano  sentimenti, slanci, propositi e  anche  qualche pena e tormento  necessari, questi, per ridimensionare i nostri voli pindarici.

In questa mia escursione ideale forse non  è  del tutto  estraneo  il ricordo delle meditazioni del grande, acuto e raffinato scrittore Marcel Porust, la cui opera “La ricerca del tempo perduto”si colloca tra i massimi capolavori della letteratura universale.  La  “Petit Madeleine”, dentro la quale è racchiusa la sua intuizione folgorante. Quel dolcetto burroso a forma di conchiglia  imbevuto nel tè non è semplicemente un pezzetto di  squisita materia, ma è l’elemento rivelatore che gli  mostra finalmente quello che sta cercando: se stesso, il recupero dei ricordi.  Il grande  protagonista è il passato; austero e solitario, il tempo alle spalle null’altro chiede se non di essere utile. Non urla. Ma non può fare a meno di risorgere. Sfrutta anche i sogni per farsi  ricordare. In quei  momenti si scende dalla mente al cuore ed è l’unica condizione per collegarci con quel bambino che è in noi. Io , ad esempio, sono figlio del Novecento e non so rassegnarmi alla sua scomparsa:   potrei pensare che il mio attaccamento a ciò che è stato abbia a che fare con la nostalgia della giovinezza. In realtà è qualcosa di più  profondo, non facile da definire, una sorta di sindrome della grandezza, la consapevolezza di essersi formato ed aver fatto parte di un’epoca terribile e insieme magnifica, una tempesta di idee e di  fatti a petto della quale  ciò che è venuto dopo è solo una risacca  dove qua e là galleggiano relitti senza vita. E forse  non  serve nemmeno la “Madeleine” di  Proust per richiamare alla memoria qualcosa. Rituffarsi nel passato; quella irresistibile involontaria pulsione sollecitata anche semplicemente da una casuale sensazione, come lampo che illumina.

Tutto quello che ho dentro è già tutto descritto nella mia “lista” tutta di seguito: foto, suoni, odori, film, un bagaglio del passato pronto ad uscire in ogni momento del presente, davanti a una persona, a  un sorriso, a un’immagine. E così nel catalogo, senza ordine gerarchico, delle  tante  minime cose che hanno reso e rendono la mia vita degna di essere vissuta, ci sono attimi di felicità e piaceri da sottoscrivere: ridere a crepapelle, piangere al cinema, gettarsi a capofitto in conversazioni senza fine con dei vecchi amici,  abbracciare, sentirsi pieni di slancio, lasciarsi trascinare da impulso, ricevere un bel regalo, provare un paio di scarpe nuove, ballare, accoccolarsi, i baci sul collo; quasi un sofisticato sistema di riti che rianima e fa assaporare, gustare un’ancestrale sensazione di felicità, rivivere la più bella stagione della giovinezza, che ci fa uscire dalla nebbia crepuscolare.

È sale della vita cedere ai piaceri della vita, mangiare ostriche in riva al mare, succhiare liquirizia, mangiare a ripetizione  pistacchi, mangiare con le mani accovacciati attorno ad un piatto comune,  un calice di vino bianco, un caffè al sole. Ma  anche commettere piccoli peccati veniali: poltrire a letto il mattino, imprecare come un carrettiere, stiracchiarsi. O apprezzare la natura: annusare l’aria fresca all’alba, sfiorare le mimose, raccogliere le more, restare in estasi di fronte ad un fiore di ibisco, farsi camminare una coccinella sul dito,  guardare il fuoco che arde, sentire il profumo delle brioche calde per strada. Vale la pena vivere per assistere alla processione del Corpus Domini con le bandiere alle finestre e le ceste piene di petali  di fiori,  ricordare di aver pianto leggendo “Senza  famiglia”. Rivivere con profonda commozione la scioccante ma anche meravigliosa  esperienza di un mio lontano breve soggiorno a Calcutta, “La città della gioia” (come l’ha definita in un famoso libro Lapierre), con le sue inimmaginabili, stridenti e per noi incomprensibili contraddizioni degli “slum“ , che non rappresentano né cultura né storia, ma solo la speranza di un altro giorno di vita; dove si vive il ciclo della degradazione e della miseria, ed insieme l’incredibile resurrezione nella grandiosa ricorrenza novembrina del “Dewali”, la festa della luce, con la sorridente fantasmagorica cerimonia del “Puja”, come la chiamano,  per l’attesa  di “Laksmi”, la divinità della gioia e della ricchezza.

E  ancora tante  altre cose, come  camminare per strada e sentire all’improvviso  l’odore della  Colonia che usava mamma, restare assorti di fronte alle spatolate spesse dei giaggioli di Van Gogh,  ritrovare una foto in bianco e nero di tanto tempo fa, sentirsi sciogliere di fronte all’insolenza devastante di Clark Gable in “Via col vento”, sedere al sole a Piazza Navona in febbraio, sognare di visitare Machu Picchu. Andare a prendere i figli a scuola, essere felici quando lo sono i nostri figli, arrossire e prendersela con se stessi, essere  stupendamente felici per  qualcosa che si è appena fatto.

                                          E anche, rivivere per  una sola volta la meravigliosa, gioiosa atmosfera  del carnevale di un tempo che fu, ad  Atri, mia adorata e nobile città nativa,  sempre ed ogni volta vissuto con la viva, spontanea partecipazione degli amici più cari, in lieta, gentile esuberante spensieratezza; oppure riassaporare la sprizzante, festosa, esaltante esplosione di sana allegria del giorno dell’anniversario della mie nozze d’oro con la cara Emiliana.

Insomma scoprire il proprio “io”, che non è soltanto il soggetto che pensa ed agisce, ma anche quello che sente, percepisce e ricorda. Imparare a far  tesoro dell’esistenza quotidiana, ritagliando momenti di tale leggerezza e gusto da diventare il “sale della vita”. Riscoprire la quasi assurda bellezza dell’essere vivi.

Alfio Carta