CON IL CALORE DEI RICORDI

DON ENRICO LIBERATORE, UN SACERDOTE FRANCESCANO A TUTTO TONDO

Uno dei primi ricordi che ho di Don Enrico, risale al 1983, nella chiesa di S. Gabriele, in Atri. Era venuto il Vescovo Pavel Hnilica per le Quarant’Ore e Don Enrico era al suo fianco, nella concelebrazione. Una liturgia molto raccolta e partecipata, nella prassi di Don Paolo della venuta di Vescovi e Sacerdoti di nazioni martoriate nei momenti più importanti dell’anno comunitario.

Condivisi con Don Enrico, il primo viaggio all’estero, nell’estate 1984, in Jugoslavia. Lo rivedo sulla Motonave “Tiziano” durante la traversata dell’Adriatico, in un caldo pomeriggio, prima dell’approdo a Spalato. Sembrava tutto un altro mondo, Tito deceduto da appena quattro anni, poche insegne luminose, gigantografie di Josip Broz, ma nei vicoletti dove si passa con difficoltà puoi trovare l’icona della Madonna o la statuina di S. Antonio.

Don Enrico mi regalò una statuina di Gesù Bambino, proveniente da Betlemme, durante una visita con mio padre nella Parrocchia di S. Stefano, nell’estate 1985. Ci presentò un pittore polacco, Jurek, amico di Mario Anello, lo storico fisarmonicista di Atri, trapiantato nell’hinterland milanese, e ci parlò nello spartano ufficio della moderna chiesa silvarola.

Venne a trovare mio nonno, nel Natale 1986. Era tornato in Atri dalla prima lunga esperienza monastica alle Fratocchie. Quell’anno la notte Santa ebbe la visita della neve e la ricorderò come il Natale della visita di Don Enrico. Poi fu la volta della Certosa di Farneta, e di nuovo fra i trappisti, alle Tre Fontane.

Non ho avuto molte occasioni per parlare con Don Enrico, perché ha servito da sacerdote la città natale per appena cinque anni, in condominio con Pineto dove era Parroco di S. Francesco, come cappellano delle clarisse. Tornò in Atri, pochi mesi dopo la morte di mio nonno, avvenuta il 10 marzo 1995, ed ero già in partenza per l’Università di Perugia.

Nacque un rapporto epistolare, entrambi amanti della scrittura e quattro divennero gli appuntamenti annuali: Natale, Pasqua, S. Enrico e compleanno. Qualche volta infilavo pure l’anniversario di sacerdozio e nel 2003 volevo fargli un moscone sul settimanale diocesano per i 33 anni di presbiterato. Pensai che questo non gli avrebbe fatto piacere, era molto riservato, pur essendo affettuoso a 360 gradi.

Le sue lettere erano sempre una carezza di gioia, un’esortazione al bene, un incoraggiamento in tutto. A volte erano cartoline illustrate con le amate montagne, servite nei primi anni di sacerdozio tra Valle S. Giovanni e Poggio Umbricchio, oppure il Santuario di S. Gabriele. Era rimasto francescano nel profondo del cuore e l’ultima conversazione telefonica, nel novembre dell’anno scorso, ebbe per oggetto anche la pratica della Corda Pia, corrispettivo della Via Crucis, per i Conventuali, e mi disse che la faceva S. Giuseppe Cafasso. Uno dei Santi che non mi sarei mai aspettato, perchè lo vedevo troppo immerso nel dinamismo subalpino, un Don Ciotti con la talare anche nei momenti quotidiani, un Don Cacciami che passava qualche secondo in più davanti al Santissimo.

Entrando, nel giorno delle esequie di Don Enrico, a Roma, nella chiesa di S. Pantaleo, ho pensato che l’amatissimo prete atriano ha fatto la stessa morte di Padre Ernesto Balducci. E avevano, più o meno la stessa età. Due sacerdoti che in qualche modo si somigliavano. Profetici, perché sanno guardare avanti, senza rimanere nell’ingranaggio delle convenzioni sociali. Affettuosi, perché sanno essere vicini nei momenti del grigiore e della sofferenza, e donare il balsamo della misericordia in ogni momento.

Don Enrico è passato all’altra riva, all’ombra del Santuario di Loreto, dove si recava non di rado, per un momento di ritiro, con la Confessione e la sosta orante nella Santa Casa. Ha potuto dire con Bartolo Longo “a te l’ultimo bacio nella vita che si spegne”. L’avvocato salentino si riferiva a Pompei, Don Enrico alla Casa dove Maria fu salutata Piena di Grazia e avvenne il mistero salvifico dell’Incarnazione.

L’ultima volta che ci siamo visti, nel Santuario della Madonna dei Miracoli a Casalbordino, dove operava come oblato regolare. Finalmente aveva coronato il sogno della vita da regolare, e quei pochi minuti di conversazione, nell’aula celebrativa pullulante di fedeli e pellegrini, fu un’iniezione di coraggio e spiritualità. Don Enrico leggeva anche i miei articoli, non gli sfuggivano neppure le lettere che mandavo ai periodici di pastorale liturgica su un argomento che mi assillava: il servizio liturgico perché viene affidato soltanto ai bambini? Con la carezza paterna, materna e fraterna Don Enrico, sorridendo e benedicendo, mi faceva capire che bisognava andare avanti. Forse somigliavo a quell’amico impressionato solo da una cosa, durante la gita a Firenze: il Mac Donald.

E leggeva pure quanto scrivo, dal 2013, sul periodico online. Ed ero contento, perché Don Enrico era, e continua ad essere dal Paradiso, l’amico sacerdote che aiuta a comprendere il mistero e la bellezza della Chiesa, luce sempre accesa, porta sempre aperta, tavola sempre imbandita.

SANTINO VERNA