ARTISTI A 360 GRADI!

I FRATELLI ANELLO NEL GRUPPO DEI SANTANTONIARI DI ATRI

La dicitura “santantoniaro” ha due significati diversi. In Umbria sono gli organizzatori e i protagonisti della festa dei Ceri a Gubbio, la più sentita della regione, dove si venera S. Antonio Abate, oltre a S. Giorgio e S. Ubaldo, patrono della città. In Abruzzo sono invece gli interpreti e i suonatori delle rappresentazioni musicate e dei canti di tradizione orale, per la festa del patrono del monachismo. Hanno il corrispettivo primaverile nei “passionari”, cantori e suonatori, questa volta vestiti come nella vita di tutti i giorni, della Passione del Signore e del dolore della Madonna.

Il termine “santantoniaro” ha avuto in questi ultimi anni una grande diffusione, per i vari gruppi della regione che si esibiscono, anche al di fuori della metà di gennaio, in Abruzzo e in altri luoghi, proponendo anche canti diversi dal S. Antonio, sempre però della tradizione locale. E’ il caso del gruppo di Penna S. Andrea, il paese dell’organetto, nel Sud Vomano.

Luigi Braccili, studioso di tradizioni popolari, scomparso nel 2014, li definiva “santantoni” e nel caso atriano ricordiamo ovviamente Umberto Sacripante, morto nel 2010, fondamentale interprete del patrono morale d’Abruzzo. Sì, perché, sempre come diceva Braccili, S. Antonio Abate è il Santo più venerato in Abruzzo, pur non essendo mai stato dichiarato patrono della regione.

Il nome “santantoniaro” va anche a quanti interpretano il diavolo tentatore, “nu diavele bunaccione” per dirla con Tonino Anello che nella poesia “Na jurnate de meravije” parla proprio della rappresentazione del S. Antonio, a Pettorano sul Gizio, in occasione della festa dei SS. Benigno e Margherita, quando c’erano ancora i frati minori conventuali. Tra questi P. Alberto Grossi, uno dei primi responsabili del periodico del Sacro Convento “S. Francesco patrono d’Italia”, all’alba della riscoperta della devozione al Santo Poverello di Assisi.

I fratelli Anello, artisti a 360 gradi della città di Atri, hanno avuto un ruolo di primo piano nelle rappresentazioni del S. Antonio Abate, nella seconda metà del XX secolo. Ma forse questo non viene molto ricordato, perché nel mondo teatrale, canoro e poetico hanno fatto tante altre cose. E poi il ruolo del diavolo, essendo minore rispetto a S. Antonio, non richiederebbe una voce particolarmente curata. Del demonio viene apprezzata soprattutto la mimica con i salti, anche senza il forcone, per infastidire S. Antonio. Questo in Atri, perché a Scafa, sembra quasi l’inverso, con Cesidio Lissa Lattanzio, di poco più imponente di Franco Ronzone. Ma si potrebbero fare tanti altri esempi in Abruzzo, dove ogni paese ha il suo S. Antonio. In altre regioni persistono altre tradizioni, come i fuochi a Novoli nel Salento e il piatto della Basilica di S. Maria degli Angeli.

Tonino e Gino Anello hanno interpretato la parte del diavolo, il primo da basso, il secondo da tenore. Sia nella rappresentazione itinerante per le case, come avveniva una volta, sia in quella in una sola casa, con il travestimento in un attiguo locale, deformando simpaticamente la consuetudine, perché i “santantoniari” arrivavano in abiti civili e difficilmente si riuscivano a vedere i costumi, ben imballati, a differenza della ferula di S. Antonio, alla cui estremità è appeso il campanello, come si vede nell’iconografia tradizionale (anche se una variante vuole il Santo con il campanello in mano). Gli attori tornavano nella veste ordinaria per la lauta cena e riprendevano i panni del S. Antonio se dovevano esibirsi ancora per i ritardatari. Tonino ha vestito il ruolo del diavolo soprattutto negli spettacoli del coro folkloristico “A. Di Jorio”. C’era pure l’altra versione, di autore anonimo, quindi popolare, raccolto da Ettore Montanaro e rielaborato da Ennio Vetuschi, per il coro “G. Verdi” di Teramo. Nel caso di Atri, l’esecuzione era ed è affidata a Nino D’Alessio, storico componente del coro, nell’uniforme della compagine canora. Nel brano manca la parte del diavolo, menzionato sin dalla prima strofa.

Un progetto di Elio Forcella, drammaturgo e regista, era quello di inserire il S. Antonio in uno spettacolo-tipo del coro, con il tema delle quattro stagioni. Volendo iniziare da gennaio, il S. Antonio cadeva proprio a fagiolo, corredato da un canto abruzzese in cui si parla di neve e montagne. Per i mesi seguenti c’era l’imbarazzo della scelta, con la rievocazione di attimi di vita agricola e serenate nei momenti più belli dell’anno.

Mario Anello fu per tanti anni il fisarmonicista per antonomasia di Atri. Componente dell’AC, si trasferì a Pessano con Bornago, uno dei tanti comuni dell’hinterland di Milano. Accompagnò con il fratello minore del pianoforte i “Siparietti” presso il Teatrino “Mandocchi” con riviste e sketch, quando il piccolo schermo era presente in pochissime case e il palinsesto non copriva tutte le ore del giorno. E, naturalmente, accompagnava il S. Antonio, di Antonio Di Jorio, perché a farla da padrona è la fisarmonica.

Il melodramma del S. Antonio, prevede infatti un piccolo concerto, mentre la rappresentazione portata avanti dagli etnomusicologi, ha gli strumenti dell’antropologia della musica come il tamburo a frizione, piatti, pifferi, organetto e anche suppellettili da cucina per amplificare il rumore. Sono due soluzioni diverse, sotto il comune denominatore del padre di tutti i monaci, l’una appannaggio della storia della musica e della musica d’arte, l’altra prerogativa delle discipline demoetnoantropologiche, come l’antropologia culturale. Tonino Anello, poeta e indagatore delle tradizioni popolari abruzzesi, l’ha messo in evidenza, con un pizzico di rammarico, per il sopravvento, soprattutto in ambito universitario, del S. Antonio degli etnomusicologi. Per Atri, nel 2002, sembrò una colonizzazione antropologica, “da li terre de li Cerrane”, come dice Tonino nella poesia “Atre nostre”, piacevole e nello stesso tempo malinconica satira che riapre un dibattito, dove non si può stare affatto con le mani in mano.

SANTINO VERNA