Anche alla luce dei recenti tragici avvenimenti terroristici, presentiamo ai nostri lettori un saggio di Alfio Carta, scritto anni addietro e che si presenta oggi nella sua vibrante attualità.

 Quando la storia diventa attualità

 CARLO MAGNO NELL’EUROPA, NELL’OCCIDENTE E NELL’ISLAM 

Una casuale rilettura dell’ADELCH ha rinfocolato alcune mie sopite reminiscenze storico-culturaIi sui momenti ed eventi di grande portata storica. Così, navigando con la memoria in quella difficile epoca, affiorava dai ricordi del ginnasio la figura di Carlo Magno e della sua città, Aquisgrana, dove, in alcuni miei soggiorni di qualche tempo fa ho rivisto le vestigia intatte di ciò che egli aveva costruito ed ho rivissuto gli eventi che tratteggiano la sua ascesa. Mi sono così imbattuto in un oscuro Monaco di un lontanissimo tempo passato, sconosciuto ai più, che la storia pone in relazione con la Corte di Pipino di Heristal, (padre di Carlo Magno), anche per la sua particolare carica di Abate della storica Abbazia di S. Maurizio, una delle primissime sedi del culto cristiano, situato nelle impervie altitudini del Gran S. Bernardo, tra il duro Vallese e l’alta Valle del Rodano.

E la circostanza mi ha suggerito di rivisitare idealmente la sconfinata misura della storia che ha il Chiostro di S. Maurizio – che darà la prima accoglienza all’atteso arrivo del Papa Stefano II - primo Pontefice che valicava le Alpi fin dal tempo di Pietro, dandomi modo di risalire fino a quei tempi per le vie parallele dei secoli, al punto di ritrovarmi contemporaneo ai sentimenti e pensieri di uomini vissuti in anni molto lontani da noi.

Siamo agli anni prima del Mille, nell’ottavo secolo dopo la nascita di Betlemme - correva l’anno 753 - ed il continente Europeo, per l’enorme portata dell’invasione dell’Islam, era in condizioni che non erano mai esistite fin dai primi albori della Storia. L’Occidente aveva sempre ricevuto gli stimoli di civiltà dall’Oriente attraverso i Fenici, i Greci, in largo senso anche dai Romani, piccola appendice meridionale dell’Europa. In quel lontanissimo secolo il mondo, come sempre accade nel gioco del tempi, era dentro il travaglio di grandi mutazioni. Non sono mai molte le forze che determinano questi movimenti. Così avveniva in quel lontanissimo secolo, nel quale cinque Poteri soltanto racchiudevano le sorti di chi allora viveva, e di chi dopo di allora sarebbe venuto alla luce della storia. I cinque Poteri erano: Bisanzio, il Papa, i Longobardi, i Franchi e Maometto. Di questi, Bisanzio era una luce ormai spenta, impotente a fare ancora valere l’antica eredità imperiale dell’Occidente frantumato. I longobardi, padroni dell’Italia da 200 anni si consumavano nel logorio di un lungo dominio, che è simile a quello della vecchiaia. Le forze nuove erano lo Stato dei Franchi, rigenerato da una nuova stirpe regia; e gli Arabi lanciati da Maometto attraverso i suoi Califfi, verso le loro inedite conquiste. Quanto al Papato (regnava allora Papa Stefano II), esso era ancora fragile di vera potenza. Ma la sua autorità ed il suo prestigio, come i germogli di una pianta crescente, andavano prorompendo. Per proteggere la sua primavera aveva però bisogno di un braccio secolare. A Stefano II, uomo di grande intuito e saggia lungimiranza, bastò poco per maturare e preparare il suo disegno storicamente gigantesco, come tutti gli atti di che imprimono alla Storia le sue rare scelte decisive e che danno una svolta alla Storia. Puntò al settentrione, sul popolo dei Franchi, la grande intuizione storica, ed iniziò il periglioso viaggio attraverso le Alpi verso Ponthion, nella lontanissima e nordica regione a quel tempo chiamata Austrasia, per chiedere protezione a Pipino, Re dei Franchi, che l’attendeva. In questo un po’ fantastico quadro storico s’inserisce il mio racconto, che da molto lontano prende spunto dalla lettura della manzoniana tragedia dell’Adelchi e dalla vaga reminiscenza scolastica della tappa importante che fu l’Abbazia di S. Maurizio nell’avventuroso viaggio del Papa. Governava allora l’Abbazia S. Maurizio, situata nelle impervie altitudini del Gran S. Bernardo tra il duro Vallese e l’alta Valle del Rodano, l’Abate Uberto, uomo di statura gigantesca e un poco brigante, senza la cui protezione il Gran S. Bernardo diventava un valico di morte. Correva l’anno 753 in quel remotissimo luogo. La disgregazione dell’impero di Roma, la sua caduta, il suo disfacimento, si segnalavano anche fisicamente attraverso la decadenza delle strade, in abbandono come vene di un cadavere. Papa Stefano II aveva intrapreso e proseguiva il suo lungo e difficile tragitto al di là delle Alpi e a tutto ciò che quella traversata mise in moto nel profondo delle avventure umane. I primi passi per orientare verso il Nord il centro di gravità del Mediterraneo, la cui storia si identificava fino ad allora con la storia dell’Occidente. Stefano II era costretto a questa scelta dalla spinta di Maometto e dalla decadenza di Bisanzio: Carlo Magno non si spiega senza Maometto!

Fossi vissuto a Roma al tempo di Stefano, avrei sentito anch’io le emozioni, le strette che incalzavano la Città e spingevano ad agire: se Bisanzio abbandonava il campo, solo il trono di Pietro poteva rivendicarne la successione. Questo era il nodo del futuro: impedire che nel vuoto dei poteri imperiali si inserisse una forza non dipendente da Roma. Ed ecco che un Papa va per il mondo come in un regno veramente suo, portatore di una maestà universale. E così il convoglio papale giunge stremato alla porta dell’Abbazia di S. Maurizio dove l’abate Uberto attendeva fremente con i suoi monaci per accompagnare il Papa alla sua cella dove trascorrerà la rigenerante notte nella generale letizia di tutto il corteo papale per essere giunti alla fine dei pericoli. I frati vegliano in orazione fino all’alba, fino alla partenza che procederà quindi con più speditezza verso i grandi fiumi del nord, con la scorta dei legati di Pipino venuti appositamente incontro al Pontefice. Il periglioso viaggio si concluderà il giorno in cui cade la festa dell’Epifania, il 6 gennaio del 754, allorché il corteggio del Papa giunge in vista di Ponthion, dove Pipino ha preso stanza per l’inverno in uno dei suoi palazzi sulle alture della Marna.

Quando furono nel salone di ricevimento, alla presenza della corte, il Papa si getta ai piedi del Re, quasi singhiozzando, certamente per liberarsi dalla pena che lo stringe, dalle angosce che porta con sè da Roma per mezza Europa, e che affida alla spada di Pipino. La voce rotta dall’emozione, nel silenzio di tutti, chiede al sovrano dei Franchi di accordare la sua protezione a S. Pietro e al popolo romano, di liberarlo dai longobardi.

Questi i prodromi del merito che la posterità sente di riconoscere a Pipino d’essere stato il padre di Carlo Magno. “Pipinus Rex pater Caroli Magni.”

Stefano II, il Papa che aveva valicato il S. Bernardo per stringere l’alleanza con i Franchi e Astolfo, il Re dei longobardi contro il quale quell’alleanza era rivolta, erano morti.

Basilica di S. Pietro, notte di Natale dell’800: Carlo Magno guerriero, viene incoronato da Papa Leone III. Nasce il Sacro Romano Impero.

Il mito ci presenta un’icona risplendente: valoroso guerriero, saggio amministratore, audace Capo di Stato, lungimirante imperatore. Il favoloso destino postumo di Carlo il Grande si colloca sin dall’avvio sotto il segno del Sacro e dell’immaginario, anche nell’immagine che se ne ricava di Primo Europeo e ultimo Romano. Se per i personaggi storici più recenti, ad esempio Napoleone, il peso dei documenti è tale da impedire che il mito prenda il sopravvento, per Carlo Magno la penuria delle fonti e la distanza nel tempo hanno permesso alla leggenda di costruire un personaggio che ha ormai un rapporto molto alla lontana con il figlio di Pipino e di Berta di Leon. Un’aura di lontananza che carica di fascino il Carlo Magno storico. Una mitica leggenda, invero soltanto un po’ velata da tristi accadimenti come ci diranno i cori dell’Adelchi manzoniano (“Dagli atri muscosi, dai fori cadenti…”) con i Franchi chiamati a difesa del Pontefice che, vittoriosi, si accaniscono sui Longobardi vinti, mentre gli italiani, immemori delle passate glorie romane, stanno a guardare. Ed ancora (“…sparse le trecce morbide sull’affannoso petto…”) con la povera Ermengarda, figlia del Re Longobardo Desiderio, che sposata da Carlo Magno per ragioni di Stato, sempre per ragioni stato viene ripudiata e muore di dolore.

La figura storica di Carlo Magno forse si identifica con il concetto di Europa, dopo aver rinviato di un millennio la costituzione del nostro Stato unitario. Di lui non rimangono documenti e biografie contemporanei dei suoi quarantasei anni di regno, tranne la biografia del monaco Eginardo, oltre ad una statuetta di bronzo dorato che io ho ammirato nella Galleria Apollo al Louvre di Parigi  era rimasta abbandonata nella Sagrestia della Cattedrale di Metz, uno dei luoghi importanti della vita di Carlo Magno.

Il barbaro. L’illuminista-illuminato. Il precursore di Bonaparte. E soprattutto il sostegno alla Cristianità che avvia la stagione della difesa dell’Europa dall’Islam, come nel disegno di portata storica di Stefano II. Perché tanto interesse attorno a questo senso di intuizione di quel Papa nel 753 ? Perché l’obiettivo dell’Islam era ed è tuttora di fissare il vessillo della mezzaluna su tutte le capitali d’Europa, inclusa la Roma dei Papi da Stefano a Innocenzo XI e successori, realizzando il proprio credo con l’espansione generalizzata che era già iniziata nel VII secolo per l’egemonia ottomana sul Mediterraneo. La prima espansione avvenne già nel VII secolo al tempo della prima grande espansione dell’Islam. Allora i mussulmani furono fermati a Poitiers nel 732 ad opera di Carlo Martello, un discendente degli Heristal, come era chiamata la prima proprietà degli avi di Carlo Magno, fin dai tempi in cui essi erano saliti al rango di “Maggiordomi di palazzo” dei Merovingi che allora regnavano nell’Austrasia, come era chiamata quella regione del nord Europa.

Ed oggi possiamo affermare che se i mussulmani non fossero stati fermati allora e successivamente a Lepanto nel 1571 e poi ancora a Vienna nel 1683 nello storico e famoso assedio in cui le truppe congiunte dell’imperatore Leopoldo d’Asburgo, del Re di Polonia Giovanni III - meglio conosciuto come Jan Sobieski (oggi a Varsavia c’è un lussuosissimo albergo a lui intitolato) sconfissero sotto le mura di Vienna lo sterminato esercito Ottomano, guidato da Kara Mustafa, oggi l’Occidente sarebbe islamizzato.

Certo la storia non si fa con i se, né con i ma e pur tuttavia sarebbe lecito pensare fondatamente che non solo si possa fare proprio così, senza volere ora parlare dei problemi “ucronici” o, come si usa dire, “contro fattuali”: lo spazio me lo vieta. Se no perché, ad esempio, tanto interesse attorno a quel celebre, ma ormai remoto avvenimento dell’assedio di Vienna il 2 settembre del 1683: soprattutto perché negli ultimi due decenni si è sviluppata la polemica attorno a quel che per alcuni è il tentativo dei fondamentalisti islamici di colpire l’Occidente con una nuova invasione conquistatrice che sarebbe il seguito dei precedenti tentativi di espansione mussulmana dei secoli scorsi. Peraltro già oggi stiamo assistendo ad una diversa e nuova strategia conquistatrice, subdola strisciante. Un’invasione morbida, politically correct, un’evoluzione della specie dell’islamicamente corretto che si nasconde dietro la facciata della “Primavera araba”. Così è sorta la Moschea di Segrate, la prima con cupola e minareto, in ossequio alla volontà della comunità islamica di mettere radici nel nostro Paese. Quindi la grande Moschea di Roma finanziata dall’Arabia Saudita e voluta anche dai guru della nostra classe politica della Prima Repubblica, come monumento della scelta dell’Italia di allearsi e sottomettersi ai detentori del petrolio. Ed oggi, finalmente, nel contesto della globalizzazione ispirata al multiculturalismo, si inaugurerà la grande Moschea di Colle Val d’Elsa, voluta ed amministrata direttamente da un’istituzione pubblica italiana, il Comune, ed in parte cospicua, finanziata dalla finanziaria di una banca italiana. Questo evento sarà la cassa di risonanza della cosiddetta “Primavera araba”, la più colossale menzogna mediatica. Il tutto nella ipocrita motivazione ufficiale: ”un soggetto privato portatore di DIRITTI DEFINITIVI (Sic) meritevoli secondo principi civilistici della buona fede”, fingendo di ignorare che dietro la sigla “Comunità dei mussulmani di Siena” si cela l’UCOII, ideologicamente affiliata ai Fratelli Mussulmani. E ciò pur volendo comunque negare fondamento alla teoria di Samuel Huntingon sullo scontro di civiltà, che già allora provocò e mantenne vivo nella cristianità un sussulto del vecchio “spirito di crociata” da parte di mistici e predicatori come il famoso Marco D’Aviano.

Non c’è dubbio che nella feroce battaglia del 2 settembre, in cui la mischia era sovrastata dai due opposti slogan guerrieri “Gesù e Maria” e “Allah Akbar”, spirasse il vento impetuoso della crociata e della Jihad. Ma ciò non dipendeva dal fatto che quella fosse una “guerra di religione”: bensì dal fatto che era uno scontro di genti profondamente religiose, e per le quali il fatto religioso era primario e centrale. Genti che alla fede religiosa, della quale erano permeati, ispiravano e consacravano sempre tutti i loro atti della loro vita: anche il pane che s’infornava quotidianamente, anche il lavoro agricolo e artigiano. Figurarsi la guerra, qualcosa di così alto e terribile da non potersi intraprendere se non nel nome di Dio. È questo elemento,  oggi scomparso nella Modernità occidentale e sopravvissuto nello stesso Mondo islamico molto meno di quanto di solito si dica e si creda, che noi siamo incapaci di correttamente valutare e che ci induce a grossolani errori, sulla cui potenziale gravità dobbiamo riflettere seriamente. Siamo noi il principale nemico, con vocazione al suicidio, della nostra civiltà? È un interrogativo tragico e drammatico che non ha nulla a che vedere con la celebre analisi storica sullo “scontro di civiltà”. È però questo un argomento che, per la sua delicatezza e vastità, conto di trattare in altra sede. Basti per ora solo considerare la falsità di una visione “deterministica e ciclica” della storia, essendo fondatamente prevalente quella per la quale ogni civiltà si configura come una risposta ad una sfida, come una vittoria dell’uomo sulle condizioni avverse. Il futuro non è mai prevedibile. La narrazione di Tucidide sulla Guerra del Peloponneso ci fa intendere il perché muoiono le Civiltà e mostra una sorprendente attualità. Ecco perché, con la nostra ipocrita acquiescenza potremmo anche essere noi il principale nemico della nostra civiltà.

Alfio Carta