Pubblicato Lunedì, 15 Giugno 2015
Scritto da Alfio Carta

PUCCINI: UN COMPOSITORE MODERNO CON IL DONO DELLA MELODIA

IL SEGRETO DEI MIEI SENTIMENTI MUSICALI

Amo la cultura, in tutte le sue genuine espressioni, storia, letteratura, poesia, teatro, arti figurative e quindi anche la musica che oggi soffre la sua tragedia culturale: la piccola lirica (come preferisco chiamare l’operetta), il melodramma, la musica colta, la danza classica, il repertorio napoletano, il tango (un linguaggio complesso, questo, in cui convivono tragedia, malinconia, ironia, amore, gelosia) ed anche tutto quel dolce, indefinito, vario e meraviglioso repertorio leggero orecchiabile, non solo italiano, che ci ha deliziato ed ancora continua a farlo quando ci capita di ascoltarlo: anche Pavarotti ce l’ha riproposto ed Arbore, con la sua famosa Orchestra Italiana, applaudito in tutto il mondo, e tanti altri ancora: tutti sublimi generi musicali e scenografici un po’ decadenti anche perché non sufficientemente tutelati dalle gerarchie politiche, prese come sono, ad assecondare il grande pubblico assetato di spettacolari show musicali di certi repertori, spesso senza una trama melodica.

La neo-avanguardia “cantautoristica”, tutti stregati dal neo-relativismo, rappresenta la cosiddetta egemonia culturale anche nella musica. L’arte, nell’accezione più elevata del termine, è pervasa dall’irruzione di un nuovo modello culturale, quasi una schizofrenia mentale che forse sente di voler dire qualcosa che io , però, vecchio incanutito pensatore, non riesco ad intendere, oppure non sa dire nulla, complice una moda (anche nell’abbigliamento sulla scena, tante volte sciatto, discinto, sbrindellato) che sul piano del costume seppellisce definitivamente l’Italia che fu, costretta in un’ortodossia ideologicamente conformista eppure, solo all’apparenza, felice nel lanciare spesso solo messaggi di ribellismo politico-sociali o di fratellanza universale: fenomeno di moda, nella sua proiezione antiborghese, sempre attivi e vigili nella difesa dei privilegi, cattedre, contratti, impieghi ormai conquistati: male antico questo. “Auri sacra fames! “ (esecrabile brama dell’oro).

In tutte le espressioni dell’opera dell’ingegno, c’è una terra di nessuno, una striscia di confine, che divide i capolavori dalle boiate pazzesche e nell’arte sta scomparendo una civiltà, e, quindi, una identità e l’armonia e la grande mutazione che ne prende il posto, trasforma in bulimia distruttiva un’ansia del nuovo che non ha più argini. La politicità è la dimensione di certi repertori che a volte trova anche il modo incidentale di incitare all’uso della cosiddetta droga leggera. E la brama di attrazione giunge fino a servirsi dei più bei siti archeologici, come il Circo Massimo ed i Fori Imperiali. Tutti i nuovi generi musicali classici dell’Italia che fu soffrono la disattenzione degli spettatori, anche a causa della limitata tenitura nei Templi laici di questa sublime cultura decadente. Il grande pubblico, i giovani che non sanno, sono assetati soltanto di spettacoli show musicali di certi repertori. La superficialità attrae, la sostanza allontana. Oggi regna La bibbia di una musica leggera che parte dagli anni 70…nuovi parametri di giudizio, ormai cambiati e valutati non più per l’arte in sé, o per le vendite discografiche o per le rappresentazioni o i concerti, ma anche con lo streaming e la rilevanza sui social network (Folk Rock, la moda musicale Punk, il Rock con le nuove tecniche elettroniche, i metallari, il Rap). Una rivoluzione anagrafica della musica la cui composizione (le canzoni) sono sempre più svincolate dall’appartenenza a generi musicali rigorosamente impostati: una vera globalizzazione culturale con tanti testimoni sulla scena: One Direction, Katy Perry, Arianna Grande, Pharrel Williams, Conte, Lady Gagà, Rolling Stones, Spiritual Frontex, rapper Gemitaiz § Madam etc. etc. Contano solo le classifiche di vendite e streaming. Invero, dubito che si squarci la crisi ! Un giovane musicista mi confidò un giorno che il Rap gli toglie la malinconia! (sic).

Sono legato al passato che mi fa rivivere il sapore della “Madeleine“ di Proust, quella istintiva sensazione che ci permette di sentire con contemporaneità quel passato risvegliato ogni volta da quella musica, sospinti dal benevolo influsso ispiratore che mi giunge dal Pantheon delle Muse protettrici di ogni manifestazione del pensiero: Euterpe, Talia, Melpomene, Tersicore, Polimnia, Calliope.

Dovrei onestamente ammettere con Orazio (“laudator temporis acti” – colui che loda il tempo passato) che i vecchi, non potendo far retrocedere gli anni passati, vi ritornano volentieri con la memoria. Il passato culturale, nell’accezione più ampia, non è un feticcio, ma qualcosa che ci resta dentro.  Solo ora mi sto rendendo conto che in questo prologo introduttivo, la penna sbrigliata abbia corso a mio piacimento e me ne scuso con il lettore, specie con quello di essi che la pensasse diversamente e che sarà in cagnesco. Mi scuso anzitempo rifuggendo io la conflittualità. Le mie ”riflessioni” sono soltanto divagazioni, sfoghi, opinioni che possono senz’altro coesistere con altre divergenti, non me ne dorrei. Certamente non condivido e non ammiro il relativismo culturale imperante, ma è altrettanto certo che io non posseggo la “verità “ e rispetto tutte le opinioni in ogni campo della vita, anche della cultura: “Felix qui potuit rerum cognoscere causas “ .

È pur d’uopo che riprenda lo scopo principale di questa mia riflessione: Il Grande PUCCINI della cui morte in questi giorni cade il 90° anniversario. In Italia, dal dopoguerra si celebrano tutte le ricorrenze possibili: la resistenza, la Repubblica, la Prima guerra mondiale, la fine della Seconda, la liberazione di Napoli, di Milano, Hallowen, la festa dei fidanzati a S. Valentino, della madre, del padre, dei nipoti, delle ricorrenze patronali, tutto il pensabile l’impensabile; per la morte precoce di un bravo cantautore giorni addietro la TV ha trasmesso una commemorazione di cui nemmeno Pavarotti, mentre vedo invece ignorate certe ricorrenze di grandi personalità nel campo della cultura.

Puccini è fra questi: ignorato da tutta la stampa, financo negli elzeviri, per il 90° anniversario della sua morte, che cade i questi giorni. Il 29 novembre 1924 moriva Puccini in un ospedale di Bruxelles, dove era stato sottoposto ad una operazione per i guasti di un tumore alla gola. Quello che insieme a Verdi è considerato il più popolare operista italiano, non ha avuto invece vita facile. E non parlo degli atteggiamenti della critica musicale, alquanto perplessa ai suoi esordi, visto il lascito ancora fresco di Verdi, ma in generale dell’accoglienza delle sua Opera da parte della critica specializzata arroccata intorno alla corrente filo wagneriana. Non gli mancarono accuse di mediocrità, persino di volgarità e scarsa originalità ed anche di inadeguata strumentazione. Ad essergli rimproverato sarà persino il cliché sadomasochistico della povera donna vittima della leggerezza e della perfidia maschile (il prototipo viaggia da Manon a Tosca e Butterfly e trova solo un capovolgimento apparente nella incompiuta Turandot, dove la vittima è Liù e non l’algida principessa cinese.

Ma Puccini è e resta soprattutto un compositore moderno, pur senza rinunciare al dono, tutto italiano, della melodia. Le sue armonie e le sue orchestrazioni rivelano la perfetta conoscenza della musica a lui contemporanea (da Debussy e Ravel a Strawinsky) ravvivata dalla cantabilità italiana e messa al servizio di un’idea drammaturgica forte e spesso tragicamente incisiva. La sue eroine femminili, dalla fatua Manon alla passionale Floria Tosca, dalla ingenua e sognatrice Cio Cio San alla candida Liù, che si sacrifica per amore, svecchiano i modelli ottocenteschi, anche perché ad essere cambiato è il contesto sociale dell’Italietta post-unitaria, borghese e umbertina. E per variare il cliché di cui si diceva, ecco Puccini ed i suoi librettisti (soprattutto la premiata e complementare coppia costituita da Illica e Giacosa) ricorrere ad ambientazioni esotiche e molto diverse tra loro, dalla Francia settecentesca della Manon Lescaut di Prevost o dalla Ville Lumière degli squattrinati artisti di Bohème, alla bigotta Roma papalina dell’età napoleonica di Sardou per Tosca, sino a terre lontane come la nuova frontiera americana della Fanciulla del West, l’incartapecorito Giappone di bonzi e santerie di Madama Butterfly, e il dorato impero cinese del Sol Levante, con la città proibita di Turandot che rilegge la poco credibile fiaba di Gozzi in chiave moderna; anche il Tabarro, il primo del Trittico, fu la scommessa in chiave sommamente moderna per allora.

Il segreto di Puccini è infatti di rendere commoventi storie che altrimenti sarebbero restate nei fondi delle biblioteche e di dare vita a personaggi stagliati a tutto tondo nelle loro perversioni o follie amorose. Personaggi complessi, sfaccettati come la vita reale che non è mai davvero manichea, con i buoni ed i cattivi perfettamente distinti. Puccini tocca direttamente il cuore della gente con quelle melodie (penso fra i tanti a Bohéme) che ci fanno persino dimenticare le parole con cui non sempre collimano, ma intanto il canto si è insinuato e sfonda la corazza della insensibilità. Insomma già da tempo Puccini ha sconfitto con la forza della sua musica gli eserciti sempre più flebili di detrattori. E se la varietà dei temi trattati non è paragonabile a quella verdiana, è anche perché i tempi sono cambiati e la complessità ha preso il posto della semplicità ed essenzialità, ma basta sentire da qualsiasi parte del mondo “Vissi d’arte” o “Nessun dorma” o “Un bel dì vedremo” per sentirsi irretiti nel mistero insondabile dei sentimenti rappresentati. In fondo è lui l’ultimo popolare operista dei nostri tempi, l’ultimo a sopravvivere alla morìa della trasformazione del melodramma e, secondo qualcuno, alla sua inarrestabile agonia. Ed è Turandot a siglare il definitivo divorzio tra pubblico e lirica contemporanea!

Alfio Carta