Dalle origini benedettine all’ultimo restauro: un viaggio nella storia
per conoscere il monumento più importante della nostra città

IL DUOMO DI  ATRI

 


Santuario della tradizione, della scienza e dell’arte,
la cattedrale non deve essere guardata come un‘opera
dedicata unicamente alla gloria del cristianesimo, ma
piuttosto come un vasto agglomerato d’idee, di tendenze,
di credo  popolari, un insieme perfetto al quale ci si può
riferire senza timore ogni volta che c’è bisogno di
approfondire il pensiero degli antenati in qualsiasi
campo: religioso, laico, filosofico o sociale.

Fulcanelli, Il mistero delle cattedrali, (1922)


UNO SCRIGNO DI PIETRA
Fulcro di una millenaria vita religiosa e cuore antico della città, il Duomo di Atri assurge a simbolo di un popolo e di una terra di cui ha scandito vicissitudini e aspirazioni, memorie e sentimenti, tradizioni locali e cultura cosmopolita. La solennità degli ambienti, la singolare dignità delle linee architettoniche, la qualità pittorica degli affreschi, l’ardita guglia della torre, il silenzioso recesso del Coro, la distesa luminosità del chiostro, la ricchezza del museo ne fanno uno dei templi più ammirati e venerati d’Abruzzo. Dedicato all’Assunzione della Vergine, è stato dichiarato “Monumento Nazionale” (1899) ed elevato a “Basilica Minore” da Paolo VI  (1964).

Il suo aspetto attuale, ictu oculi, riflette la tipologia tecnico-stilistica dell’epoca”romanico-gotica”(XIII-XIV sec): periodo in cui la teoria e la pratica artistica si svincolavano dai modelli originarî  per concedere più ampio margine alla combinazione e rielaborazione autonoma di regole e formule tradizionali. Specie in provincia, le forme architettoniche “pure”, ispirate alle grandiose costruzioni sacre, romaniche e gotiche, tendevano a scomparire per far posto a compromessi “ibridi” ma non per questo meno pittoreschi, originali e suggestivi. Va inoltre sottolineato che la pratica empirica delle costruzioni medievali, di fronte a difficoltà impreviste, comportava soluzioni audaci in corso d’opera e, quindi, continue modifiche del primitivo progetto. Ciò spiega la difficile lettura del complesso monumentale atriano e il dibattito sulla sua “discordanza stilistica” e “disorganico aspetto”, in parte dovuti - giova ribadirlo - alle trasformazioni che si imponevano tecnicamente durante i lunghi e difficoltosi lavori(1)

Tuttavia, progettisti e maestranze, pur nella contaminazione di forme architettoniche plurali,  seppero felicemente armonizzare masse e spazi ispirandosi alla robustezza e imponenza della tipologia tardo romanica su cui innestarono i caratteri lineari gotici dello slancio verso l’alto. Come tutte le costruzioni sacre dell’epoca, anche la cattedrale di Atri nasceva sotto l’impulso culturale di correnti teologiche che affidavano al linguaggio artistico la predicazione delle proprie verità.

Nessuna vera opera d’ingegno spunta ex nihilo. Essa è figlia del proprio tempo. Rispecchia l’ideologia delle forze sociali dominanti, Soggiace alle scuole di pensiero che esercitano maggiori e convincenti attrattive. Ogni chiesa assurge così a scrigno di pietra ove sono gelosamente custoditi tesori d’arte e compendio di dottrine metafisiche intese in senso aristotelico, come bisogno umano di indagare, oltre la realtà sensibile, sulle cause e sui principî dell’essere. Ne discende che l’elaborazione artistica, lungi dal rifugiarsi nel puro estetismo(ars gratia artis,  l’arte per l’arte ) svolga invece una preminente funzione morale e didascalica. Rispetto all’arte paleocristiana, tormentata e povera, quella del Basso Medioevo venne concepita per suscitare stupore, rispetto e, soprattutto, quella partecipazione interiore che Bonaventura da Bagnoregio chiamò itinerarium mentis in Deum. Ma torniamo al ritmico avvicendarsi degli stili nel Duomo di Atri. La forma spaziale romanica, solenne e quieta, in sé conclusa, simboleggiava la forza, la stabilità, la coordinazione e l’universalità della Chiesa costantiniana (cioè istituzionalizzata), mentre il dinamismo verticale gotico evocava il pensiero mistico degli asceti, il cammino di spiritualità verso le vette del sublime, l’aspirazione dell’animo umano all’infinito.

LA FABBRICA ED ALCUNE SUE VICENDE
La Cattedraledi Santa Maria Assunta si erge lungo l’asse viario principale (cardo) dell’antico tessuto urbano di Hatria Picena. Essa, nella parte orientale, poggia su una poderosa struttura romana di età repubblicana (III- II sec. a.C.) utilizzata come conserva d’acqua e, secondo alcuni studiosi (2), trasformata in terme nell’epoca imperiale (II sec. d. C.). Per altri, invece, tale ambiente, dopo la primitiva funzione di cisterna, sarebbe stato adibito a macellum e forum piscarium, vendita di carne e di pesce (3), per via dello schema planimetrico simile ai mercati di Neapolis, Alba Fucens, e Saepinum, nonché per i mosaici pavimentali in bianco e nero, riaffiorati durante i restauri raffiguranti pesci reali (delfino) e fantastici (centauro anguipede). Nella turbinosa temperie dell’Alto Medioevo, è probabile che il manufatto romano abbia avuto altra destinazione d’uso, forse ossario e luogo di culto, ma non vi sono testimonianze attendibili. La concreta presenza di una Ecclesia de Hatria, risulta per la prima volta esplicitamente citata in un diploma del 958 inviato da Ottone I al Vescovo di Penne (4). Segue ancora una bolla pontificia del 1140 in cui Innocenzo II riaffermava che Sancta Maria de Hatria, cum omnibus cappellis et pertinentis suis era soggetta alla suddetta diocesi. In realtà si trattava di una abbazia la cui tipologia strutturale (chiesa e chiostro) riportava ai modelli dell’Ordine benedettino che, in quel periodo, raggiungeva la massima diffusione in Abruzzo (6). Tale complesso, rimaneggiato a fondo dai Cistercensi sotto il priorato di Rogerio, venne solennemente consacrato nel 1223. Lo ricorda una pergamena originale conservata nell’archivio capitolare. Sorge a questo punto l’interrogativo: il fabbricato benedettino era a tre o a cinque navate? Per G. Matthiae non vi sono dubbi. La vecchia chiesa, priva di transetto, era a cinque navate. Ciò verrebbe avvalorato da quanto venuto alla luce nei lavori di restauro da lui diretti (1955-1964), cioè dai resti di una grande abside semicircolare nella navata centrale e di due absidiole nel fondo della navata sinistra, nonché dai tronconi di pilastri accostati alle due pareti (7). Di tutt’altro parere è C. Bozzoni (8). Egli sostiene che il disegno a cinque navate è assente nell’architettura benedettina i cui caratteri, nella nostra regione, erano all’epoca immutabili. Inoltre, aggiunge che l’ubicazione della torre campanaria, nel contesto planimetrico prospettato dal Matthiae, avrebbe incongruamente interrotto la campata occidentale più esterna. Tralasciamo la ostica quaestio e arriviamo alla bolla del 27 maggio 1251 con la quale il legato pontificio, Pietro Capocci, vescovo di Albano, conferiva dignità episcopale alla chiesa di Santa Maria e libero ordinamento comunale alla città. Era il compenso che Innocenzo IV erogava agli atriani per la loro inversione di rotta, da ghibellini a guelfi, contro l’imperatore germanico. Nel nuovo scenario Beraldo, primo vescovo di Atri, subentrò al priore mentre i canonici sostituirono i monaci cistercensi. L’evento comportava numerosi oneri, primo tra tutti il bisogno di una domus sacra più solenne e all’altezza del nuovo rango. Si capisce, quindi, come clero e comunità si impegnassero nel conferire al tempio esistente maggiore vivezza e fresco splendore. I lavori cominciarono intorno al 1260 e terminarono nel 1305 ma, già nel 1284 era agibile e funzionante. Le vicende costruttive di questo periodo si conoscono poco. Però, le prime quattro coppie di alti pilastri, fasciati da rinforzi ottagonali di laterizi, testimonierebbero scompensi statici dovuti ad errori di calcolo nel corso dei lavori. Tuttavia i risultati furono più che soddisfacenti: consistente prolungamento della chiesa ad ovest, ampliamento delle navate e sollevamento degli archi a maggiore altezza, portali decorativi con lunette dipinte, imponente torre campanaria, facciata di raffinata semplicità, vivaci affreschi sulle pareti interne e sui pilastri. Il merito della monumentale costruzione va a Raimondo de Podio e a Rainaldo d’Atri, come attestano le iscrizioni in gotico scolpite su due portali del lato meridionale. Nella seconda metà del XV secolo, sotto la signoria di Andrea Matteo III di Acquaviva, si aprì una nuova fase di abbellimento per la Cattedrale. Andrea Delitio, affrescò il Coro(9) con uno spettacolare ciclo pittorico sfruttando tutti gli spazi delle pareti, della volta e dei pilastri. Nel 1502, Antonio da Lodi innestò sul campanile, a pianta quadrata, un equilibrato tamburo ottagonale a guglia acuta con bifore e finestre tonde ornate di scintillanti maioliche. Fu “il sigillo” che il maestro lombardo appose alla costruzione, quale sistema a sé, ideato con il gusto strutturale e decorativo del tardo gotico. L’anno dopo (1503) vennero eretti la Cappella degli Acquaviva e il Battistero. L’autore, il Maestro comacino Paolo dè Garviis, vi profuse tutto l’humus culturale della sua terra: severa classicità delle forme, sensibilità decorativa, tecnica curata nei particolari, armonia impeccabile degli spazi. Specie il Fonte battesimale, presenta intagli raffinatissimi sull’intera struttura che vede al centro un’acquasantiera con una vaschetta a cui si aggrappano quattro leoncini. Nello stesso clima di vitalità creativa vennero più tardi costruite due cappelle degne di menzione: quella della nobile famiglia Corvi (1577) in pietra e la Cappella degli Arlini (1618) in legno dorato nel cui stemma gentilizio è ritratto il biscione visconteo che ne rammenta le origini lombarde. Inizialmente, in quest’ultima cappella era collocata una prestigiosa tela di notevoli dimensioni “La Madonna col Bambino e Santi” di Camillo Procaccini, esponente di vaglia del manierismo lombardo del Seicento. Il dipinto, ricordato dal Pacichelli nel 1703,  è andato smarrito nei lavori di restauro 1954-1964 e sostituito con altra tela di scuola napoletana coeva ma di minore valore artistico (10). Il 17 settembre 1563 fu un giorno calamitoso per Atri e i suoi prestigioso monumenti. Sul “Necrologio” della Cattedrale si legge: Die XVII Septembris 1563 hora decima sexta terremotus factus est magnus adeo quod memoria hominum hac nostra tempestate majorem non repetit et frontespitium huius Ecclesiae sub portam magnam vi diruptum est, et lapides cacuminis dicti parietis ceciderunt.

In sintesi: un terremoto, mai ricordato così violento, ha provocato il crollo del frontespizio e una pioggia di massi è precipitata sul portale maggiore. Dallo scarno resoconto sulla scossa tellurica alcuni studiosi hanno dedotto che il coronamento originario della facciata fosse cuspidato; solo più tardi sarebbe stato ricostruito a terminale orizzontale(11). Altri, viceversa, giudicano tale ipotesi del tutto fantasiosa, poiché il coronamento rettilineo della facciata era comune a tutte le chiese del XIII e XIV secolo in Abruzzo: peculiarità architettonica che rimase inalterata per secoli(12).

L’avvento del Barocco indusse clero e altolocati committenti ad animare l’austero ambiente interno con l’enfasi, la teatralità e la fastosa esibizione devozionale della nuova corrente artistica. Gli antichi altari vennero rimossi per essere sostituiti con altri di legno indorato e stuccato. Sull’altare  maggiore venne collocato un maestoso baldacchino in noce, intonato a quello bronzeo di S.Pietro. L’autore, Carlo Riccione da Atri, allievo del Bernini, vi lavorò dal 1677 al 1690. Seguirono altri interventi giudicati da G.Cherubini oltraggi di pazze restaurazioni che hanno fatto quasi interamente disparire le scolpite e dipinte memorie di quella età che vide sorgere il sacro monumento(13).  Solo nel XX secolo prevalse l’idea di restituirela Chiesa al suo originario fascino attraverso l’eliminazione degli apparati architettonici posticci e incoerenti, promossi con rozzo dilettantismo. A tal riguardo assume notevole importanza il restauro conservativo eseguito dal 1954 al 1964, sotto la direzione di Guglielmo Matthiae, storico dell’arte e, all’epoca, Soprintendente ai Monumenti. Dei lunghi e imponenti lavori ricordiamo brevemente: la demolizione del Coro interno e della Sagrestia; recupero dell’antica facciata con le sue quattro alte monofore; sbancamento del presbiterio seicentesco e la messa in luce di una vasca esagonale con pavimento musivo, nonché di vestigia e parti residue della primitiva chiesa benedettina; rimozione del Baldacchino e suo spostamento nella contigua Chiesa di S.Reparata; costruzione di un intera area per ospitare il ricco Museo e completamento del loggiato superiore del chiostro. Dal 1984, per quasi un decennio una serie di interventi ha interessato gli affreschi e il ciclo absidale del Delitio. Poi, dal 2004 al 2009,la Cattedrale rimaneva nuovamente chiusa per opere di consolidamento, restauro e funzionalità. Ci limitiamo a segnalare : gli interventi di pulitura della facciata e dei portali per l’esaltazione delle forme e cromatismi lapidei, il riscaldamento a pannelli radianti, la razionale copertura in ferro e vetro dei lacerti musivi, la nuova pavimentazione in pietra naturale sottoposta a particolare lavorazione, la reintegrazione pittorica degli affreschi, l’individuazione di uno sconosciuto accesso alla cripta e altro. Bilancio altamente positivo, dunque, per la lucidità progettuale e precisa esecuzione dei lavori che fanno oggi di questo Monumento un vitale centro di spiritualità e cultura.

IL CATECHISMO VISIVO
La Chiesa militante, quale forza spirituale egemone, sin dai primi secoli di vita, avvertì l’esigenza di diffondere la propria dottrina religiosa e liturgica non solo con la parola passata di bocca in bocca ma attraverso l’immagine dipinta e scolpita. Il contenuto della fede e dei suoi”misteri” doveva arrivare direttamente agli occhi e al cuore dei simpliciores(fedeli illetterati). Gregorio Magno(590-604) lo aveva chiaramente intuito e spiegato al vescovo Sereno di Marsiglia. A differenza degli Ebrei, Musulmani e Cristiani greco-bizantini che ritenevano blasfema l’arte figurativa sacra, il cattolicesimo ne comprese l’eccezionale carica divulgativa e ideologica. L’iconografia religiosa era qualcosa di più della parola orale o scritta poiché essa trasformava il tempio in un proscenio di suggestive rievocazioni e di sottili atmosfere in grado di suscitare emozioni e turbamenti. La pittura e la scultura rendevano visibile il soprannaturale, esorcizzavano i poteri malefici, ridavano giovanile vigore alle sopite energie, rafforzavano il magistero della Chiesa quale depositaria di verità rivelate e preordinate alla salvezza dell’umanità. Occorre inoltre aggiungere che l’arte figurativa sacra, grazie all’intelligenza di artisti e committenti, non si limitava alla narrazione del fascinoso mondo di Dio, della Madonna e dei Santi con i loro simboli, miracoli e dogmi. Essa offriva spaccati concreti delle comunità di riferimento: tradizioni, costumi, ambienti urbani, paesaggi rurali e scene di fatica quotidiana. Caratteri e qualità, questi, riconducibili ad una sorta di realismo magico in cui la veristica minuziosa precisione delle immagini sapeva evocare atmosfere di penetrante incanto. Alla luce di queste notazioni preliminari sullo spessore ideologico dei messaggi artistici di comunicazione di massa, usati dalla Chiesa, prenderemo brevemente in esame: L’incontro dei Vivi e dei Morti, la Trinità e il Ciclo absidale di Andrea Delitio. Partiamo dal primo affresco situato nella zona terminale della navata sinistra, a cavallo tra la parete di fondo e quella contigua del Coro. E’ ritenuto il più antico. Gli studiosi sono abbastanza concordi sulla data di esecuzione che oscillerebbe tra il 1270 e il 1280, anche se, recentemente, dopo l’analisi dei diversi strati d’intonaco, è stata avanzata l’ipotesi che si tratterebbe d’un parziale rifacimento della primitiva stesura, anteriore alla prima metà del XIII secolo(14). La scena evoca il contrasto tra tre vigorosi giovani, forse di nobiltà sveva, in assetto di caccia(con paggi, cavalli e falco) e tre scheletri, due in piedi e il terzo in procinto di sollevarsi dal sepolcro. E’ l’allegoria del memento mori. Gli scheletri, con mascella e mandibola aperte, simboleggiano la corruzione della carne, la vanità delle cose e i transeunti inganni della vita. Onde il drammatico sottinteso ammonimento che pervade la favola iconografica: quod sumus, hoc eritis: pulvis et umbra(diventerete ciò che siamo: polvere e ombra).

Quale metamorfosi rispetto alla primitiva antropologia cristiana della morte! Nella versione paolina, la fine della vita terrena era considerata un dono misericordioso di “resurrezione” in una dimensione eterna e beata. Una tesi acquietante enunciata nella lettera ai cristiani di Tessalonica in cui l’apostolo afferma che la morte fisica è nuova vita in Cristo, ovvero introduzione all’immortalità. Col tardo medioevo il quadro ideologico muta. Emergono fondi sinistri. Anselmo d’Aosta(1033-1109), nelle meditazioni, con crudo compiacimento, privilegia la drammatizzazione dell’agonia e il dissolvimento del corpo umano quando….gli occhi giacciono in tenebre orrende,.. le orecchie si riempiono di vermi,…le narici imputridiscono,.…il ventre emana fetide esalazioni et similia.(15)

Tali pulsioni fobiche alimentarono tutto un filone artistico che, secondo Jurgis Baltrušaitis, ebbe nell’affresco del Duomo di Atri una delle prime testimonianze in Europa, seguite da altre simili composizioni come quelle di Santa Margherita a Melfi(XIV sec.), Subiaco(1335), Pisa(1350), Cremona(1419) ed Elusone(XV sec.), (16).

Altro singolare affresco è la Trinità che decora il secondo pilastro ottagonale di destra. Assai dibattuto è il nome dell’autore: Ugolino da Milano(Trubiani), Antonio da Atri, con qualche esitazione(Leone De Castris) e via dicendo. La datazione è fatta risalire ai primi decenni del XV secolo(1412 o 1437). Il linguaggio artistico del pannello è legato al gotico internazionale con inflessioni umbro-marchigiane. In esso predomina l’impostazione iconografica. Com’è noto il monoteismo trinitario è il mistero centrale della dottrina cristiana, la sua radice. Formulato nei Concili di Nicea(325) e Costantinopoli(381), afferma che Dio è uno in tre persone , coeterne e coeguali. Non è facile spiegare il concetto, meno che mai rappresentarlo pittoricamente quale soggetto di meditazione. Nella Chiesa ortodossala Trinità è ritratta con tre immagini angeliche sedute allo stesso tavolo con al centro un calice eucaristico. L’iconografo per eccellenza, Andrey Rüblёv(1360-1430) docet. Nel Duomo  di Atri invece, l’artista, guidato da canonici di lucida fantasia, ha inteso materializzare l’essenza del messaggio con la slanciata figura di un Cristo benedicente che presenta tre delicati volti aureolati. L’Unità divina, nella eguaglianza e distinzione delle tre Persone, non poteva essere meglio rappresentata sul piano artistico e correttamente spiegata sul versante teologico.

Veniamo, infine all’espressione più alta del Rinascimento abruzzese: la grande composizione pittorica che riveste interamente le pareti dell’abside(o Coro dei Canonici). Sull’autore, Andrea de Litio, esistono poche certezze e alluvionali discordi congetture(17). Le uniche documentate tracce riguardano: il soggiorno a Norcia per la decorazione della chiesa di S.Agostino(1442), il contratto per gli affreschi della chiesa di S.Francesco a Sulmona(1450), la firma e la data apposte sulla parete esterna della chiesa di S. Maria Maggiore a Guardiagrele(1473). Nonostante le lacune cronologiche della sua vita, è lecito supporre che Delitio abbia svolto il tirocinio in area umbro-toscana. La scelta dei colori, l’equilibrio simmetrico, la verità naturalistica, la chiarezza delle prospettive, documentano la pronta assimilazione della koinè rinascimentale espressa dal Beato Angelico (G.C.Argan- G. Matthiae), Paolo Uccello e Domenico Veneziano(R.Longhi- F.Zeri), Benozzo Gozzoli(F.Bologna-V.Sgarbi), Domenico Veneziano e Piero della Francesca(L.Lorenzi-G.Benedicenti). Il ciclo atriano è la metafora dell’umana redenzione narrata attraverso le storie di Gioacchino, della Vergine e di Cristo. Ogni riquadro meriterebbe un analisi approfondita. Ma poiché non è possibile dilungarsi, non resta che sottolineare come il repertorio iconografico delitiano si ispiri ai Vangeli Apocrifi(18), a quelle ingenue leggende in cui il popolo ritrova molta parte di sé, dell’antica solidarietà e delle speranze più accarezzate. Una fede “laica” che porta a scoprire, al di là del pathos religioso, consuetudini della vita sociale locale e che inquadra le storie sacre non in un mondo irreale ma nella concreta evidenza di paesaggi campestri e membrature architettoniche della Atri quattrocentesca.

Aristide Vecchioni

 

 

Note:

1) G.Matthiae, Introduzione storico critica, in Affreschi della Cattedrale di Atri, Autostrade S.P.A., 1976, p.4.; F.Aceto, La Cattedrale di Atri in  Dalla valle del Piomba alla valle del Basso Pescara, Fondazione della Cassa di Risparmio della Provincia di Teramo, Vol. I, 2001, p.187; 2) Cfr. G.Matthiae, S.Maria de Hatria, in Palladio XI, 1961, Azzena, Atri,Città antiche  in Italia, Roma, 1987; 3) G.Messineo, Il complesso sotto la Cattedrale di Atri, in Dalla valle del Piomba alla valle del Basso Pescara, p.112, op.cit., a nota 1; 4) cfr. F.Ughelli, Italia Sacra, Venezia 1717, pp.1111-1153, in C.Palestini, la Cattedrale di S.Maria Assunta, Betagamma editrice, 1996; 5) Altri documenti fanno menzione di Sancta Maria de Hatria. Ricordiamo le bolle pontificie di Lucio III(1181), Clemente III(1189), Celestino III(1194), Innocenzo III(1198) e i diplomi di Enrico IV(1195) e di Federico II(1200 e 1221). Cfr.L.Sorricchio, Notizie storiche ed artistiche intorno alla Cattedrale di Atri, Teramo1897; F.Aceto, La Cattedrale di Atri in Dalla valle del Piomba alla valle del Basso Pescara, C.Palestini, la Cattedrale di S. Maria Assunta, op.cit.; 6) Cfr. L.Mammarella, Abbazie e Monasteri benedettini in Abruzzo, Adelmo Polla editore, 1993. I reperti decorativi di tipologia benedettina possono attualmente essere ammirati nella corsia superiore(loggiato) del Chiostro. 7) Il resoconto scientifico dei lavori di restauro(1955-1964) viene riportato da G.Matthiae, in Sancta Maria de Hatria, Palladio op.cit. pp.93-102;  8) C.Bozzoni, Saggi di architettura medievale, La trinità di Venosa, il Duomo di Atri. Roma 1979, pp. 101-136. Ancora Cfr. C.Palestini, Cattedrale S.Maria Assunta, cit.a nota 1;  F.Aceto, La Cattedrale di Atri, cit. a nota 2; 9) la datazione degli affreschi è incerta. Per alcuni, l’opera, forse commissionata dal Vescovo Antonio Probi, risalirebbe al 1465 circa(G.Benedicenti, R.Torlontano, G.Matthiae con qualche esitazione). Altri sostengono una datazione posteriore al 1481(Bertaux, Argan, Bologna, Lehman- Brockhaus). 10) Cfr. F.Battistella, Un altro dipinto di Tanzio in Terra d’Abruzzo, in Rivista Abruzzese, fascicolo monografico 1995, n.3, p.164, e p.179, nota 53; B.Trubiani, La Basilica Cattedrale di Atri , Roma, 1969, pp.202-204; 11) B.Trubiani, La Basilica Cattedrale di Atri, pp.43-44, op.cit a nota 10; 12) I.C. Gavini, Storia dell’Architettura in Abruzzo, vol. II, Polla editore, Avezzano, p.8; 13) Il regno delle Due Sicilie decritto e illustrato, Napoli, 1858, vol. XVII, fasc.2, p.14.; 14) F.Aceto, Novità sull’ “Incontro dei tre vivi e dei tre morti” nella Cattedrale di Atri, in Prospettive, luglio-ottobre 1998; 15) Anselmi, Liber meditationum et orationum, cap.XI, De corpore post animae discessum  PL, 158, 720; 16) J Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico, Mondatori, p.232; 17) Importanti contributi sul percorso artistico del Delitio sono contenuti negli Atti del Convegno tenutosi a Celano nel settembre del 2000 dal titolo: Andrea De Litio, i Luoghi, le Opere. 18) Sulle fonti religiose apocrife che hanno ispirato l’opera del Delitio, è bene consultare il saggio di G.Benedicenti: Il ciclo di affreschi della Cattedrale di Atri in Andrea Delitio, Catalogo delle opere, Centro Di, 2001, pp.60-61.