ALFIO CARTA: L'ORGOLIO DI ESSERE ATRIANO
Diamo il caloroso "benvenuto" ad Alfio Carta che mette la sua immensa cultura a disposizione del nostro periodico. La sua collaborazione ci è molto gradita e pensiamo di fare cosa utile per i nostri lettori pubblicando il suo coinvolgente viaggio nella storia per recuperare il passato che ci appartiene e traccia i sentieri del nostro futuro.
Il suo breve profilo autobiografico consente di conoscerlo meglio e di apprezzare maggiormente i suoi contributi culturali.
Ho l’orgoglio di essere nato in Atri nel 1929, il 15 maggio.La “ levatrice” donna Gilda entrò a casa mia dalla finestra dello studio di papà: c’erano quattro metri di neve. Sono cresciuto dalle suore cappellone presso la cui scuola ho frequentato le “ elementari”. Quindi, sempre in Atri, il ginnasio ed il liceo classico. Mi sono laureato in giurisprudenza alla Sapienza di Roma, dedicandomi già allora ad una assidua frequentazione delle biblioteche della capitale. Ho tradito mio padre, Notaio, avviandomi all’avvocatura. Ma la mia vera vocazione era la carriera amministrativa per la quale, con grande rammarico di mio padre, ho abbandonato anche la professione legale, già felicemente intrapresa, e mi son dedicato ai concorsi pubblici vincendone cinque, sempre nei primi posti di graduatoria. Il primo incarico è stata la Direzione di un ufficio provinciale a Chieti di un Ente Pubblico. Poi sono entrato nella S.I.A.E, dove ho lavorato 40 anni raggiungendo una posizione di vertice. Da pensionato sono riemerse le profonde reminiscenze culturali, dedicandomi ad una assidua e corposa scrittura di saggi e riflessioni che sono diventati gli sfoghi del mio modesto sapere e dei quali sono massimamente soddisfatto: forse ho sbagliato professione.!
UN VIAGGIO IMPEGNATIVO E AFFASCINANTE ALLE RADICI DELLA NOSTRA CIVILTA'
LA DIVINA ROMANITA’:TRA STORIA MITO E LEGGENDA
di Alfio Carta
1° PARTE: LA MISSIONE IMPERIALE IN UNA SCORRIBANDA TRA PERSONAGGI E VICENDE CHE CI APPARTENGONO
Le persone possono ancora appassionarsi per fatti accaduti in un lontano passato. Infatti il “passato” non è mai passato. Il passato è tutto intorno a noi e continua ad influenzarci. La storia rappresenta le fondamenta dell’edificio in cui tutti noi viviamo. Possiamo non conoscerla, o ignorarla deliberatamente, ma la storia c’è, esiste. E per un narratore, la storia è una cantina in cui si cela un tesoro inesauribile, pieno di storie e racconti meravigliosi, di personaggi affascinanti, di fatti che ci sembrano distanti nel tempo e vicini allo stesso tempo, perché dopo tutto sono fatti della stessa materia di cui siamo fatti noi (e i nostri sogni): fama, lussuria, passione, crudeltà, amore, tenerezza, potere e denaro.
Quando mi interrogo sul perché ho scelto proprio l’antichità invece che, ad esempio, il mondo affascinante e complesso del medioevo, trovo diverse ragioni per spiegarlo. Una di queste è che tutto ha inizio proprio da lì: la politica e la poesia, l’arte e la filosofia, il lusso e la miseria, il peggio e il meglio, i nostri archetipi e gran parte delle nostre metafore. Per molti anni Parigi è stata chiamata l’Atene sulla Senna, Washington è stata soprannominata la Nuova Roma, ogni città sotto assedio è diventata Troia, e in un certo senso ogni vagabondo è diventato un Ulisse, ogni imperatore un Kaiser, cioè Cesar. Dopo la caduta dell’impero romano ci sono voluti quasi 1500 anni perché si potesse di nuovo tornare alla qualità delle strade, degli acquedotti e della distribuzione alimentare di cui l’Europa occidentale godeva nel 400 d.C.
Ma i Romani non furono soltanto dei fantastici costruttori e amministratori. Ci hanno dato, è vero, acquedotti, Orazio, Virgilio e Catullo, ma sono stati anche maestri di distruzione e genocidio. Basti pensare al 146 a.C., anno in cui nel giro di pochi mesi, rasero al suolo e bruciarono Cartagine e Corinto,uccidendo quasi un milione di persone. Anche lo splendore di ciò che Roma rappresentava aveva i suoi lati oscuri.
Tuttavia i Romani non uccisero mai nel nome di un Dio, e forse è questo l’aspetto che mi attrae maggiormente. Il mondo antico non era certo un paradiso, ma prima dell’esplosione del monoteismo era un mondo aperto, affamato di conoscenza e gloriosamente “umano”. E, tra l’altro, ho un motivo in più per sentirmi antico. La città in cui vivo è Roma.
È per questo che civis romanus sum.
Queste premesse sono l’espediente narrativo da cui muovere per entrare nel mito che si fa storia, anzi il mito e la leggenda sono al servizio della storia. Il primo approccio con la storia avviene negli anni 30 a.C., quando per Ottaviano, il futuro Augusto, era sorto il sole di Azio ai danni dei due sfortunati amanti, Antonio e Cleopatra, a 13 anni dalla tragica giornata degli Idi di marzo e a 11 anni dalla grande vittoria ottenuta a Filippi contro i cesaricidi Bruto e Cassio. Ora Roma, schiacciato Antonio, poteva finalmente chiamarsi eterna, Aeterna urbis secondo l’espressione di Tibullo. Il tracollo subìto ad Azio era stato assai profondo, tale da annullare financo il potere dei Tolomei. L’urèo, il cobra sacro, simbolo del diadema di Iside, attendeva il momento, acquattato nel faraonico sepolcro. Plutarco offre alcuni particolari delle scene conclusive della triste vicenda: Antonio esclama “presto arriverò dove tu stai ma mi duole che un comandante come io sono si riveli meno coraggioso di una donna“e, dopo il rifiuto di Eros, il suo fedele schiavo, di trafiggerlo lui stesso, si lasciò cadere sulla spada dopo aver dato un ultimo calcio alla corazza. Plutarco scrive che mai nessuno aveva visto scene così strazianti. Cleopatra, nell’abbracciare per l’ultima volta il cadavere di Antonio disse:“Unisco il mio corpo al tuo, le mie labbra alle tue”. Per un attimo Cleopatra aveva gettato lo sguardo nel cestino come per accertarsi della presenza dell’aspide. Lo vide attorcigliato,immobile, le squame lucenti. La lingua fiammeggiante del serpente diede un guizzo e, mentre esso le scivolava fra le dita, lei lo adagia sul seno. Un brivido la percosse a quel gelido contatto sì che rimase “di mortal veleno afflitta”.
Fin qui la storia che possiamo concludere con la fine delle guerre civili e la conseguente chiusura del tempio di Giano e l’ascesa diAugusto, con l’apoteosi dei pieni poteri in campo civile, sociale, e militare.
Il populus romanus, nella vera, storica, originaria accezione, era dedito alla pastorizia ed alla campagna. Modesti campagnoli, dai rurali romani provenivano gli alimenti in pace ed i condottieri in guerra. Come ci ricorda Pascoli “ visser nei pascoli i forti popli: l’aratro e il solco eterno disegnò di Roma“ (Poemetto Pietole ). Ed Augusto era pur conscio della storia antica di Roma.
Ottaviano è l’optimus civis che, secondo le teorie di Platone introdotte a Roma da Cicerone, deve predominare lo Stato. In vero, Cicerone non ammetteva un potere assoluto personale contrario al costume repubblicano e pur tuttavia inclinava verso un supremo moderatore. Il principato Augusteo è ciò chel’ha fatto Augusto con il suo pieghevole genio, non derivandolo da un sistema teoricamente preordinato, ma sempre conformando l’azione e i provvedimenti alle condizioni religiose, morali e sociali del suo tempo. Il primato del civis optimum in Augusto emerge dalla sua eminente grandezza, dalle straordinarie qualità politiche della sua persona. Egli non dichiara, come Cesare, di aver liberato “se et populum romanum“ ma semplicemente “ rem publicam”. Augusto poteva apparire princeps di fronte a Roma e alla sua costituzione repubblicana, e monarca nelle sue province, creando una combinazione politica senza riscontro nella storia dei popoli antichi: un ordinamento bifronte che a seconda che lo si guardasse da una parte o dall’altra, da Roma o dalle province, poteva sembrare repubblicano o monarchico. Non c’è nulla di enigmatico e misterioso quando lo si giudica su ciò che egli ha attuato e sull’accordo mirabile che ha saputo stabilire tra le sue ambizioni, gli interessi di Roma e le aspirazioni dei suoi contemporanei. Non fu ipocrisia, adulazione, ma omaggio effettivo quello che si rese all’artefice della res publica restituta , quando nel 2 a.C. il Princeps “per improvviso e concorde volere di tutti“ fu nominato “Pater Patriae “ dal Senato, dagli equites, dal popolo. Se guardiamo però alla sua mira politica ed al fine raggiunto, può dirsi, sinteticamente, con Tacito, che egli col titolo di Princeps raccolse sotto il proprio impero, tutto il mondo spossato dalla discordia civile, e, sotto il proposito espresso di voler unicamente ristabilire l’antica libertà,: “ come si fu guadagnato le truppe coi donativi, il popolo col dargli a basso prezzo il frumento, tutti con le attrattive della pace, egli prese grado a grado a levarsi più alto e concentrare in sè le attribuzioni del Senato, dei magistrati e delle leggi“ (Tacito I, 1,2). L’opera politica dell’accorto Princeps aveva costituito quell’unità mediterranea, per cui l’economia antica entrò nell’ultima fase del suo sviluppo, estendendosi fino ai limiti di quella che gli antichi chiamarono terra abitata (oicoumène) risultando, nei limiti delle terre soggette a Roma, a volte nazionale, a volte internazionale.
Si attua con Augusto la speranza di tutti gli uomini; la PAX AUGUSTA non fu una stagnante sterilità, ma pace feconda di nuove energie, il rinnovarsi del mondo, l’anno grande (magnus, saeculorum ordo, magni menses) secondo le credenze neopitagoriche e le speranze fatte vibrare in tutti i cuori da Virgilio nella sua famosa IV egloga dell’anno 40 a.C., con la quale comincia a delinearsi la stirpe del divo Giulio, progenie di Venere(epiteto romano di Afrodite greca ) ed anche i grandi poeti augustei, che nulla sconoscevano della storia di Roma e che rendevano onore anche alle ultime resistenze repubblicane, avevano pur tuttavia intese e sinceramente abbracciate le ragioni dell’impero.
Si elogia Augusto non per imprese inesistenti, ma per quel che effettivamente ha compiuto e stava compiendo, in quel che rappresentava storicamente e programmaticamente nella missione di Roma. La politica pacificatrice dopo la vittoria di Azio, le spedizioni in Siria e nell’Asia Minore, onde nel 29 torna trionfante nell’Urbee, come ha dilatato e assicurato l’impero, così si adopera per la pubblica prosperità, mediante la concordia civile, l’onore reso al culto e la edificazione e ricostruzione dei templi (templorum omnium conditorem acrestitutorem. Livio IV, 20, 7 ), la restaurazione dei costumi, l’amore per la famiglia e per la molta prole.
Sembra farsi realtà la favolosa età d’oro secondo la rievocazione alla fine delle Georgiche e soprattutto l’auspicio della IV Egloga. La figura e l’opera del Divus, - destinate peraltro a prolungarsi molto al di là della tomba e dell’apoteosi - divenivano una potenza storica che si imponevano come modello, forse, e soprattutto, come il genio politico che, avendo creato un apparato governativo atto ad assicurare la tranquillità e la prosperità del mondo Mediterraneo -vale a dire dell’umanità civile di allora - poneva lo Stato al servizio dell’uomo. Perciò nella rassegna dei romani nascituri (I.6) egli, disceso dal sangue troiano di Giulio(I.1), sarà posto a principio subito dopo Romolo (e infatti il Senato gli decretò poi il titolo di Padre della Patria). Campeggia con Agrippa nella battaglia di Azio in cui fu decisa, con la sorte di Roma e dell’Italia, quella dell’armonica civiltà d’occidente contro la mostruosità orientale del latrante “Anubi”. Come il divo Giulio, egli pure avrà l’apoteosi:“ invocato egli pure sarà nei voti” (I.371); dunque dalla idealizzazione all’apoteosi o divinizzazione. Seguendo le tracce e le affermazioni georgichiane (1-I , 1-II ) vi è rappresentato come divinità vivente che, compiuta l’opera benefica, tornerà in cielo.
Unificata la penisola ed il Mediterraneo, la Repubblica era un’apparenza, la realtà effettiva era l’impero. Nasceva l’ordine nuovo e l’impero pareva confondersi col mondo e poggiato su un sentimento fondamentale che fonde tutto in un crogiolo ardente: l’amor patrio in cui la coscienza di Roma s’è elevata a coscienza d’Italia.La Città Stato – chiusa con la sua anacronistica costituzione nell’angustia conservatrice e particolaristica dello spirito “quiritario“ (dove la vita del governo risiedeva solo dentro le sue mura) – sarebbe rimasta una città e non sarebbe divenuto il mondo: non poteva servire più a reggere e governare popoli diversi e, insieme,sottoposti ad un solo dominio: si diede vita allo strumento più poderoso per l’opera di attrazione e fusione delle varie genti sotto l’egida di Roma e per due secoli, dopo la morte di Augusto, fu innegabile la prosperità del mondo antico. Appunto, il carattere d’universalità nasce da quello nazionale anche se, in realtà e per sentimento comune, ai tempi di Virgilio medesimo, l’impero pareva confondersi col mondo; tanto che Cicerone (De Off. , II, 27 ) già aveva detto “potersi chiamare patrocinio del mondo più veramente che impero“. E Giove medesimo, rivelando i fati di Roma dice (En,I,354 segg.): “a costoro né termini di cose io pongo né di tempo: ho dato loro imperio senza fine“.
Ecco come si insinua l’immagine della missione imperiale, in una scorribanda fra personaggi e vicende di un mondo che benché lontano nel tempo, ancora ci appartiene: missione che nasce mescolando l’umano al divino.Ce lo dice anche Tito Livio (Storia di Roma. I,1,7)in una memorabile introduzione alla sua Storia, che più avanti citerò testualmente.
(continua)