Pubblicato Martedì, 12 Giugno 2012
Scritto da Adriano De Ascentiis


Il glorioso passato di Atri rivive nella appassionata ricerca degli studiosi

 IL PORTO E LA TORRE DI CERRANO

 

“Certe sono le fonti storiche che indicano l’esistenza di un epineion in epoca romana, così definiva Strabone, Geografo greco nato ad Amasea nel 58 a.C., il porto commerciale di città non marittime qual era Atri, ubicato nell’ager hatrianus e più precisamente alla foce del fiume Matrino”.

E' iniziato con queste parole della prof.ssa Oliva Menozzi, l’interessante convegno che si è tenuto ad Atri il 20 aprile 2012 nella splendida cornice della quottrocentesca chiesa di San’Agostino, oggi auditorium di Atri.

Al convegno hanno preso parte alcuni tra i più attivi studiosi dei resti delle strutture sommerse presenti nelle acque antistanti l’imponente torrione viceregnale di Cerrano  nella neonata Area Marina Protetta “Torre del Cerrano”.

Oliva Menozzi, Maria C. Mancini, Sonia Antonelli, questi i nomi delle docenti dell’Università d’Annunzio Chieti/Pescara che hanno relazionato all’interessante iniziativa organizzata dall’Agenzia Promozione Culturale di Atri e dalla Riserva Naturale Regionale Oasi WWF “Calanchi di Atri” con la collaborazione del comune di Atri e di numerosi altri enti che hanno concesso il patrocinio gratuito all’evento. Il convegno oltre alla locale Università ad indirizzo archeologico, l’università di Chieti e Pescara, ha visto anche la presenza della ricercatrice Giovanna Patti della Sapienza di Roma, università che da anni opera il zona continuando, attraverso la prof.Luisa Migliorati, l’opera di ricerca avviata nel ’82 dal professor P.Data a seguito della scoperta effettuata grazie alle segnalazioni dei pescatori di Silvi e Pineto.

Molte sono le strade da percorrere secondo gli studiosi,  ma sicuramente altri spunti di ricerca si sono aggiunti dopo gli interessanti rinvenimenti effettuati in area nel corso dell’ultimo quinquennio ad opera dell’Archeosub Hatria, del gruppo di ricercatori della sapienza e del dott. Angeletti, responsabile all’archeologia subacquea per la Soprintendenza Archeologica d’Abruzzo.

La prof. Menozzi infatti, dopo un breve cenno alle differenti teorie degli storiografi antichi sulla presenza o meno di scali portuali lungo le coste orientali adriatiche, ha ribadito l’importanza, in termini commerciali e di crescita del tessuto economico locale dallo scalo costiero di una città non marittima qual era Atri, già dal periodo romano. Le immagini subacquee proiettate dalla docente ci hanno rappresentato uno scalo che, per le dimensioni delle strutture riferite, doveva essere probabilmente utilizzato, anche grazie alle scarsa profondità delle nostre coste, come semplice mansiones o stationes della costa,  in un contesto di reti portuali minori, utili all’approvvigionamento di vettovaglie e al ricovero di navi in transito. Tale tesi è stata in seguito confermata sia nell’intervento della dott.ssa Patti, che ha indicato quello di Hatria come porto commerciale in stretta sinergia con l’antica città fin dall’epoca imperiale, che in quello della prof.ssa Antonelli, dove, lo stesso, nel periodo altomedioevale, viene inserito in un quadro di unione e di ruolo strategico con gli altri porti abruzzesi ma soprattutto adriatici.

Ma veniamo al porto e a quello che è il suo trascorso, per cercare di fare il punto sulle ricerche storiche  che lo riguardano dal periodo Augusteo fino ai giorni nostri.

Le prime notizie sull’antico approdo ci giungono da Strabone, che cita la presenza di un approdo nel territorio atriano già dall’epoca romana. Approdo che intrecciava importanti traffici con le Puglie, commerciando cereali, la Dalmazia dove si esportava ceramica e con il mediterraneo centrale da e per dove, grazie alle sottili e resistenti anfore atriane, si esportavano e importavano, prodotti di ogni genere. La prof.ssa Mancini, infatti ci ha confermato il legame tra urbe/mare/porto/commercio con la descrizione delle icone impresse sulle  antiche monete atriane ed in particolare, in quella dell’oncia e del triunce dove rispettivamente l’ancora e il pesce ricordano gli stretti rapporti tra la città e la costa.

Da sempre tuttavia la reale ubicazione del porto è oggetto di disquisizione e le varie teorie si alternano tra studiosi che fanno coincidere il porto romano di Atri una volta con la foce del fiume Vomano e un’altra con l’area del Cerrano, entrambe, a quell’epoca all’interno dello sconfinato Ager hatrianus.

Per il Vomano, si racconta di come il porto fosse ubicato in un’area non meglio definita lungo la linea di costa, in un crocevia fiume/strada, all’intersezione tra la foce del fiume Vomano e la via Cecilia. Con molta  probabilità la foce a quei tempi era collocata alcune centinaia di metri dietro e spostata di 800 m a Sud rispetto all’attuale, come ci testimoniano pubblicazioni geologico/scientifiche, ed era raggiunta e servita da un’importante strada romana, la Cecilia, ramo della Salaria che permetteva ai romani un passaggio sugli appennini e quindi una porta verso l’oriente, al sicuro dai forti e ostili Sanniti. 

Nell’area in cui sorge l’attuale abitato di Scerne - Torre San Rocco infatti, è documentata la presenza, su un’altura sulla destra orografica del Fiume Vomano, di una villa romana e del successivo monastero di S.Maria ad Maurinum e sulla sinistra orografica della Villa Sancti Martini cum porticello, toponimi facilmente riferibili per assonanza con il citato Macrinum di Strabone e con l’attuale toponimo del colle subito a ridosso della foce del Vomano, Colle Morino, tesi peraltro riportata e sostenuta anche nel corso dell’intervento della prof.ssa Antonelli.

Alquanto plausibile infatti è l’ipotesi che il sito, citato e rilevato, peraltro, in un manoscritto oramai introvabile del Sorricchio, “Le antichità dell’Adria Picena”, abbia subito gravosi insabbiamenti e sprofondamenti, dovuti sia alle periodiche piene del fiume che ai naturali fenomeni di bradisismo che ne hanno probabilmente alterato  i profili orografici.

Molti documenti comunque, se non bastassero le bitte in arenaria e calcare, le mura in opus quadratum e incertum e i blocchi di puddinga a confermare la presenza di un porto romano per l’area di torre Cerrano, ne attestano l’esistenza in epoca medioevale, la cui edificazione era in Pinna Cerrani. Il diploma spedito nel 1251 da Ascoli Piceno dal legato di papa Innocenzo IV rimane la prima testimonianza epigrafica della possibilità concessa agli atriani di edificare un Porto in Pinna Cerrani di cui ci piace citare un piccolo passo, “…concedimus ut Civitas Adrie possit habere portum per lius et litura maris per suum Comitatum ubique…”. Da allora sono molteplici le testimonianze delle attività legate sia ai numerosi restauri effettuati che alle operazioni commerciali sviluppate nel piccolo approdo, attività talmente frenetiche da causare “la ruina” già nel 1287, anno in cui gli atriani furono obbligati a trasmettere una richiesta di intercessione al giustiziere Reforzato di Castellana chiedendo “..di poter reparare e riedificare una certa vecchia torre ed il luogo frastagliato sul lido del mare dove avrebbero potuto trovare ricetto i navigli e caricarsi e scaricarsi merci ed altre cose lecite, pagati i diritti della corte…”. pretendendo inoltre che a tale ricostruzione contribuissero anche i castelli di Silvi e Montepagano poiché trovavano giovamento nel suo sfruttamento commerciale. Il porto era ubicato sulla “…plagia Cerrani…” e come recitano documenti del 1307 e del 1309, l’area all’ epoca doveva rappresentare un’importante punto di scambio e di intensa e fiorente attività, tanto da presentare, al suo interno: una torre, case, un ospizio, un oratorio, un chiostro, una chiesa,  intense attività di scambi commerciali di legname fino da lavoro, lana, ceramiche, grano ed orzo con la Dalmazia e con l’Adriatico settentrionale.

La rigogliosa attività commerciale è ribadita anche nella testimonianza del 1319 di esenzione a pagare il dazio di uscita alle navi atriane che caricavano grano e orzo dal porto di Manfredonia per trasportarle ad Atri che probabilmente si presentava consunta e stremata dalle numerose guerre intestine. Poco più tardi, tra il 1347 e il 1352, a causa dei saccheggi e distruzioni operate dalle compagnie di ventura capitanate da Frate Moriale, si ripresentò la necessità di chiedere nuovamente dei finanziamenti utili al restauro dello scalo prima a Carlo Duca di Calabria e poi a Re Luigi e Giovanna I.

 Nel 1362 gli Atriani firmarono una convenzione con i teramani per l’utilizzo del Porto di Cerrano a svantaggio di quello di San Flaviano a Giulianova, convenzione accordata dalla regina Giovanna I nonostante i “chiassosi” ricorsi delle genti giuliesi.

Un contratto di locazione e mantenimento del porto, delle case e dei magazzini, delle stalle e dell’esclusiva di pescare nelle acque antistanti il porto, stipulato tra il comune di Atri e un certo Giacomo del Lupo, testimonia i danni prodotti dalle incursioni delle flotte della Repubblica di Venezia, capitanate da Andrea Loredan per distruggere tutti i porti dell’Adriatico e ribadire in questo modo la supremazia della flotta commerciale veneziana nelle acque dell’adriatico. Tuttavia non bastarono gli sforzi di Giacomo del Lupo per restituire antico splendore al porto, tanto che gli stessi atriani chiesero e ottennero da Ferdinando I, ben 300 ducati annui per il restauro del porto e delle strutture. Nonostante l’impegno degli atriani, nel 1468 gli stessi chiesero al re ”…che atteso lo porto di Cerrano per la fortuna del mare a breve mancherà e minaccia ruina gli conceda ad essa università riedificarlo in altro luogo idoneo secondo il parere della detta università sul territorio e distretto per il litorale della detta città dovunque…”:

Nonostante alla fine del ‘400, alla morte di Giuliantonio Acquaviva, il re Ferdinando I d’Aragona, confermasse al figlio Andrea Matteo III Acquaviva i possedimenti del padre tra cui “lo castello de lo porto de Cerrano… l’eglesia de Sancto Nicola…e altro, lo stesso doveva presentarsi già in rovina.

Le ultime notizie prima dell’inevitabile insabbiamento del porto risalgono al 1513 anno in cui il procuratore dell’Università cede il diritto di pesca e di approdo ad una società composta da Giacomo di Cicerone (Sanguedolce), Francesco Firmani, Girolamo Antonelli e Prudenzio Massarotti; in seguito quel poco che rimaneva a detta di F.Da Secinara nel 1627 subì le conseguenze di un terremoto che provocò il distacco del versante collinare inglobando ogni cosa, alberi, animali e qualche abitazione e rese ancora più difficile il compito ai nostri preziosi ricercatori ai quali auguriamo buon lavoro!

  Adriano De Ascentiis