Il poeta Giuseppe Pittelli

Nei suoi versi il racconto della vita con i
suoi drammi e i suoi sogni
 

Caro dottor Pittelli, in questi anni le tue poesie non sono state oggetto della nostra attenzione e di ciò facciamo mea culpa. Ma oggi siamo contenti che anche tu sei tra noi e fai parte del nuovo percorso poetico (22 luglio 2023). Questo ci onora. La tua produzione letteraria è rilevante e speriamo che un giorno trovi degno posto nel tuo paese, anche se qui non è facile, come tu ben sai. Resta il fatto che qui sei nato e cresciuto tranne le parentesi dello studio per la laurea in medicina e prima della scuola media e del liceo. E qui hai fatto il commissario per un po’ di tempo e hai esercitato la libera professione appena laureato.

Nell’arco di tempo di permanenza dopo la laurea hai scritto. Aforismi e pensieri, e hai meditato e scritto sulle condizioni della Calabria: La cancrena del mezzogiorno italiano, I cafoni aspettano il crai. Momenti lirici, prosa d’arte; i poemetti in prosa Grazie Signore, Sulla nave celestina. E l’atto unico: Don Raffaele Saltafossa. Ancora le raccolte di poesie: L’ultimo Sud, del 1971: una riflessione politica e storico-sociale. È arrivata primavera, Il ricco, I rossi oleandri di Sibari, Alla morte chiamano Cristo. Tutto ciò che è, ha sollecitato le tue riflessioni e la tua poesia, asciutta e tagliente. L’ultima raccolta: I figli non muoiono mai, si può definire il tuo testamento. La memoria, gli affetti, le amicizie restano e le vediamo con l’occhio del tempo che passa. Le cose belle che colpiscono, la parola gentile, gli sguardi significativi rimangono a far parte di ciascuno. Hai fatto un’antologia essenziale, quasi purificazione di quanto hai scritto in poesia.

Alle nuove poesie hai selezionato qualcuna da Momenti lirici e da È arrivata primavera. Questo tuo pensiero essenziale mi pare bene lo rispecchi la poesia Alla fontana, ma si può dire di tutta la silloge: «Di silenzi/ il filo d’acqua e l’albero/ tacitamente/ parlano:/ e vuoto/ fanno il mondo». Il silenzio. Allora, la tua lontananza è stata anche l’esserci vicino. E quel tuo ricordo: «Fu una notte d’inverno. La partoriente, per una anomalia del bacino, era agli estremi. Inutili furono tutti i mezzi che la scienza pone in mano al medico generico. Solo il taglio cesareo poteva salvare la moritura, ma in quello sperduto paese della Calabria non esisteva, come tutt’ora non c’è» – strada rotabile, e la mulattiera che porta alla cittadina C…. si era resa impraticabile: nevicava da tre giorni. Così verso l’alba si spegnevano due vite…»: La cancrena del Mezzogiormo, 1952, p. 4.

La poesia di Giuseppe Pittelli (San Lorenzo Bellizzi, 21febbraio 1922 – Saracena, 12 ottobre 1999) dell’autoantologia: I figli non muoiono mai, è una poesia che si pone le ragioni dell’esistenza, del suo esserci nel mondo e il come ci si pone in questo spazio di tempo finito di fronte all’uomo, alla natura e alle cose, di fronte all’atto finale dell’esistenza: «E dopo un anno/ la stessa terra/ con un filo d’erba/ sopra»: La gloria. Non c’è scampo. Va subito all’essenziale. Il richiamo culturale può essere l’Ecclesiaste: «vanità delle vanità, tutto è vanità»; Dante, Pur. 11,91: «Oh, vanagloria de l’umane posse»; senza dimenticare Leopardi: «e l’infinita vanità del tutto» (A se stesso). Tanto per fare qualche riferimento ma Pittelli è uomo di cultura e i richiami potrebbero continuare. Egli conosce la bellezza della vita e ha la consapevolezza della sua problematicità: «Corre corre corre/ sul cavo della mano/ l’onda/ muti gli abissi/ sotto»: Al mare.

E non è pessimismo ma senso di reale consapevolezza, lungi dalla banalità e dalla faciloneria, che portano con sé l’opacità del giorno. Nella sua poesia si avverte l’afflato religioso che la sorregge, la perennità della vita. Si ricordi l’esergo a Momenti lirici: «A Gesù Cristo la mia parte migliore» o il momento lirico Vele lontane: «Finalmente gli uomini si sono messe le ali: con il sandalo benedetto della Croce, corrono, sulla solitudine immensa del deserto, corrono nelle Tue braccia luminose, o Signore». La brevità del verso lascia l’ampio spazio alla pagina, dove il lettore può continuare a scrivere, a sostare col proprio pensiero in religioso silenzio. «Mangiare/ congiungersi/ lavorare/ dire/ Oh Dio/ e subito/ i vermi»: Vita.

E c’è la benevolenza della natura e la dolcezza dei suoi doni: «Hanno mandato/ la dolcezza nelle case/ i quieti ulivi»: Dopo la raccolta. La fugacità del tempo e l’aggrovigliarsi di problemi: «Fugge il fiume, / fuggono le nuvole, / fuggono i figli. /Rimani tu sola, casa mia. /Quando morrò, /verrai con me? / Anche tu fuggi, /casa mia»: Straniero. E nello spazio della pagina ci invita a una risposta e alla prospettiva di senso nel fare o non fare. Tutto ciò che è stato rimarrà nell’essere umano, perché egli è anche tutta l’esperienza con un più o con un meno, senza le scorie della materialità: «Oh, amico mio, il ricordo/ di quel sorriso o di quella parola. /Questo il vero vestito»: Il vero vestito. La memoria il ricordo nella storia personale: ecco la poesia Infanzia: «Ti ricordi, amico mio, quando le cose erano doni aerei/ che allargavano e deliziavano gli occhi? / E ti ricordi ancora il sorriso dei grandi, perché farfalla eri intorno al loro corpo? / Oh, amico mio, quei sette o otto anni di carne:/ i fiumi erano teneri come la pelle, / le stagioni erano solo verde e bianca/ e la bufera era la banda fuori la finestra».

Riandare nel tempo, ripercorrere il proprio cammino e rapportarlo al cambio delle stagioni. E infine I figli non muoiono mai, quanta tenerezza e quanto dolore, quanta cura e quanto dispiacere, quando le cose non vanno secondo la prospettiva naturale. Dolore ma non disperazione, perché ci saranno sempre con noi: «Lo vedeva sempre. / E quando il grande buio/ le si parò davanti, /egli, mite, / si era accostato al letto/ e le sorrideva». Quanta sottile delicatezza e presenza. E senso di continuità della vita. Egli non dice, ma fisso il pensiero a Chi è «il solo punto fermo nel moto dei tempi, / in sterminata serie di eventi» (Clemente Rebora, Il Natale).

Francesco Carlomagno