Pubblicato Giovedì, 06 Luglio 2023
Scritto da Claudio Varani

LA MIA ATRI

IL PROFUMO DELLA MEMORIA:
LA VITA IN CAMPAGNA E IN CITTA'

Per completare il quadro che la mia memoria mi suggerisce degli anni 1958/1965, provo a descrivere in quattro brevi paragrafi la vita in campagna, quella in città, le elementari a Ricciconti e i giochi che facevamo noi del quartiere Porta Macelli.

LA VITA IN CAMPAGNA.

Inizio a parlare della vita in campagna di quegli anni, cominciando dai carri agricoli tirati da vacche che proprio da Porta Macelli entravano in Via Cherubini, per scaricare i prodotti dei campi nei magazzini delle aziende agricole della via. Ricordo che a fine anni ’50 la strada era ancora sterrata e polverosa e i grandi carri che oggi fanno bella mostra nelle sfilate di ferragosto, stracarichi di sacchi di grano e di generi alimentari, provenienti dalle campagne di Borea San Domenico, del Cagno, della Piomba, del Fosso del Gallo e della vallata alle spalle dell’attuale EUROSPIN, procedevano lentamente alzando un gran polverone e lasciandosi alle spalle le deiezioni degli animali aggiogati.    

Voi non potete immaginare l’emozione provata quelle poche volte che sono salito su uno di quei carri: dall’alto ero affascinato dalla potenza che si intuiva osservando le groppe delle vacche, che da Borea San Domenico, su una stretta strada sterrata tutta sconnessa, trascinavano su ripide salite il peso del di carro, del carico e degli uomini, senza apparente fatica. I colpi di frusta, i muggiti, i nomignoli…Rusinè, Pacì, Paciarù….che ricordi!

Nei magazzini padronali, dentro enormi cassapanche si riversavano il grano e tutte quelle derrate secche che si potevano conservare a lungo; in autunno, in tempo di vendemmia, si scaricavano tante casse piene di uva che veniva pigiata nelle presse fatte funzionare a mano; dopo una lunga fermentazione nei tini di legno  nella cantina che conservava una temperatura costante, d’inverno e d’estate, si faceva “ la tramuta”, cioè il mosto fermentato veniva riversato nelle botti centenarie di rovere. Ricordo le vespe che si posavano sulle braccia attratte dagli zuccheri dell’uva ma che di solito non pungevano, li “tajafurbici” che si intrufolavano dappertutto.

Ma ricordo soprattutto i contadini dai curiosi soprannomi: Sfiticchie, ‘Rcagnelone, Ciaciulle, secchi, dalla pelle bruciata dal sole, con pochi denti ingialliti, ma fortissimi, resistenti, cordiali ed esperti delle stagioni molto più di un odierno metereologo.

Erano le loro donne che mi stupivano maggiormente: in genere piccole, segaligne, anch’esse con la pelle bruciata dal sole, quasi sempre scalze e con i piedi più duri del cuoio, portavano i prodotti al “padrone” in grandi ceste che ponevano sul capo, sorrette da “nu sparone”, attorcigliato a ciambella. Ci voleva forza e resistenza; il carico sul capo faceva loro acquistare un’andatura aggraziata, ma la dura fatica dei campi consumava ben presto la loro giovinezza. Ricordo la carissima Ritina Magnavine, non più alta di un metro e cinquanta, magrissima, che in tempo di guerra da sola aveva trainato  un enorme vitellone, a piedi, dalla campagna in fondo alla vallata alle spalle dell’EUROSPIN alla ferrovia a Pineto, lo aveva fatto caricare sul carro bestiame e con il ricavato della vendita era tornata ad Atri, sempre a piedi, a casa del padrone per consegnargli i soldi, per poi scendere di nuovo nella sua campagna e non certo per riposarsi.

Erano fatte di ferro, lavoravano come gli uomini e, in più accudivano bene anche alle loro case.

Alcuni altri ricordi veloci: la bontà dei “miscutti de la tresc” che si mangiavano durante la trebbiatura, biscotti dolci accompagnati o con la birra e con vino bianco fresco e limone; i polli ed i conigli cotti al forno a legna; “lu camarole”, un operaio che stava proprio sotto la trebbiatrice,  con un fazzoletto che gli proteggeva bocca e naso dall’enorme polverone sollevato che lo ricopriva completamente di bianco, mentre con un rastrello raccoglieva la “cama”, cioè quella parte della spiga che circondava il chicco; le “serrine”, cioè le capanne costruite con le spighe che uscivano dalla trebbiatrice con l’abilità di provetti architetti; i linguaggi particolari dei campi, che per me che non parlavo a casa un dialetto strettissimo risultavano di difficile comprensione: li scliccheje cos’erano? (poi mi hanno detto che erano i chicchi d’uva dopo essere stati pressati), lu zichinill e lu manzone? (maiali di diversa dimensione ed età);  “so’ sadd annammont” “so’ r’jit annabball” pensavo fosse inglese!!

Era la fatica la vera caratteristica dei campi, anche se chi vi nasceva si abituava da piccolo a lavorare; questa fatica però faceva crescere uomini e donne duri e resistenti, coltissimi nella loro ignoranza assoluta, perché dei loro campi sapevano tutto, come tutto sapevano del tempo e dei loro animali.

Non li ho mai invidiati, ma li ho sempre, assolutamente rispettati.

 

LA VITA IN CITTA’

Adesso vorrei raccontare ai miei nipotini come si viveva in città.

 Ovviamente ho esperienza e ricordi solo della vita all’interno della casa dove abitavo, che era sicuramente una casa privilegiata; penso che nelle case dello stesso livello la vita fosse simile, sicuramente non lo era dove si doveva lottare ogni giorno per unire il pranzo alla cena.

 Poichè io trascorrevo la maggior parte delle giornate sempre al suo interno e nel grande giardino pensile, salvo il periodo dedicato ai giochi per strada, i ricordi si ripetono costanti ed allora ne prenderò una qui un altro là, senza una precisa linea logica.

Casa nostra era un grande edificio a più piani, nel piano nobile (primo piano) dormivano solo i proprietari Don Nicola e Donna Vivì, noi altri dormivamo al II piano a piano terra c’erano i magazzini. Di giorno si viveva prevalentemente nella grande cucina del I piano  con l’immenso camino sempre acceso, per riscaldare e per cucinare. Eravamo un gruppo numeroso di persone al servizio, con diverse mansioni: c’era Flicetta, una vecchia domestica che brontolava continuamente e che noi sfottevamo con cattiveria infantile, la quale, data l’età, si limitava a cucinare le verdure; Ida, più tonda che alta, sempre sorridente ( ricordo che durante la recita di un rosario le tolsi la sedia di sotto e lei rotolò per la cucina come un pallone) che faceva di tutto in cucina; Ninnà (vero nome Elina), adibita alla cura della vecchia sorella dell’Avvocato: Ninnì (Angela);  i miei genitori che erano l’asse portante della casa, due tuttofare che hanno inoltre accudito i proprietari fino alla fine con dedizione filiale; e poi c’eravamo noi ragazzi, in due fino al ’62 e poi tre; insomma, eravamo in tanti, c’era un via vai continuo, tra il preparare i pasti, pulire, ricevere visite e mille altre attività, comprese l’assistenza ai più bisognosi e la preghiera.

Nonostante la guerra fosse passata da un ventennio e già ci fossero da tempo acqua corrente e luce elettrica, molte abitudini degli anni precedenti si conservavano ancora: il camino non era stato ancora sostituito dal fornello a gas ( lo è stato solo qualche anno dopo), l’impianto di riscaldamento, del secolo precedente, era a carbon coke e solo nella zona giorno ( non immaginate la polvere che faceva il carbone, sia quando veniva scaricato nell’apposito locale, sia quando mamma lo inseriva in un grosso contenitore di ferro, vuotato, poi, nella caldaia arroventata), la cucina economica a legna sopra la quale venivano stesi, su appositi ferri, i panni da asciugare, il pozzo del cortile interno per la raccolta dell’acqua piovana non potabile, ma che veniva sempre tenuto pulito.

C’erano poi le abitudini particolari dell’Avvocato: la barba rasata esclusivamente dal barbiere Fernando Angelozzi, fatto venire in casa ogni due o tre giorni, i dischi a 78 giri di musica operistica e sinfonica ascoltati ogni pomeriggio sul giradischi di una Radio Marelli d’epoca; il mezzo toscano che fumava dopo i pasti e che sosteneva lo aiutasse ad andare di corpo;  altre abitudini di Donna Vivì: i rosari recitati insieme ogni pomeriggio, le favole raccontate davanti al camino, la solerte attività in favore dei “poveretti” in qualità di presidentessa delle “dama di carità”.

Niente frigorifero ( il primo acquistato fu messo in salotto, esibito come un pezzo pregiato, con un maniglione con serratura, sempre chiusa a chiave), il prima televisore Radiomarelli,  che si accendeva con parsimonia e veniva messo a disposizione di tutti nelle occasioni speciali: ricordo il funerale di Papa Giovanni, con tutto le suore (non ricordo se di Ravasco o di Ricciconti), ma soprattutto con tutte le collegiali, che mi sembra di ricordare io guardassi più del funerale.

Nella grande “callara” appesa nell’enorme camino si cucinavano i buonissimi spaghetti acquistati nel pastificio atriano di Zaira Cacchiò, situato vicino alla Villa , non mancavano lu “pizzinette” e lu “checheme” sulla brace vicino alla fiamma principale per tenere sempre caldissima l’acqua; le pizze di formaggio di un pecorino squisito ( venivano fatte con il latte delle pecore di Fontanelle, che brucavano, ci dicevano, erbe profumate), poggiate a maturare sul bordo superiore del camino, che si gonfiavano mantenendo una cremosità ed un sapore eccezionali, le file di salsicce appese sui vimini ad asciugarsi in alto, con prosciutti, costatelle, lombi (li cap’lumm’).

 Quando faceva molto freddo e, d’inverno, allora, ne faceva veramente tanto, di giorno ci si riscaldava anche con scaldini e bracieri di rame, tenuti non troppo vicino e mai in ambienti piccoli per paura dell’ossido di carbonio; la notte nel letto  si metteva “lu predde” che, ovviamente non era il parroco, ma una impalcatura di legno a forma ovale, con una base metallica su cui si poggiava “la vracirola”  piena di braci: garantisco che il letto si arroventava tanto da ricercare con i piedi i punti più freschi; alternativa a lu predde era “ la monaca “, ancora ovviamente non una religiosa, ma un braciere di rame chiuso e con un lungo manico che si passava e ripassava sotto le coperte.

Nella stanza del II piano, dove dormiva tutta la mia famiglia, l’acqua con cui ci si lavava, messa dentro “la brocca” e versata poi nel ”vaccile”, le mattine d’inverno spesso gelava; ma interveniva subito la nostra carissima mamma, che si alzava sempre prima delle cinque, e che dalla cucina del piano di sotto portava conche di acqua calda. In più, per riscaldare i nostri vestiti gelati, sempre a mano portava per due rampe di scale l’asso di coppe, un braciere di coccio della forma esatta della carta da gioco, pieno di carboni ardenti, su cui si appoggiavano maglie e pantaloni da riscaldare prima di indossarli, perché irrigiditi dal freddo.

Ad animare le giornate che trascorrevano lente sempre con la stessa routine, erano gli ospiti che venivano spesso a far visita all’Avvocato e alla consorte: a trovare Donna Vivì venivano  amiche dai simpatici nomignoli, quali Donna Giuggiù e Donna NdoNdo, i numerosi parenti provenienti da Pescara, da Francavilla e da Roma; un’ amica di cui non faccio il nome veniva quasi sempre alla cinque del pomeriggio e ogni volta respingeva l’offerta di tè e biscotti  per una fetta di pane con salsiccia e un bicchiere di vino. A sua volta,  l’Avvocato intratteneva in un salotto interno i propri amici: avvocati, medici, personalità varie della città. Ricordo che una sera, tornando dai miei giochi sul vicolo, andai quasi a sbattere contro Don Nicola Bindi che saliva le scale con una gran cappa ed con il lungo barbone bianco: mi spaventai tanto da non potere più vedere uomini con la barba per parecchi mesi.

Sono solo alcuni dei tanti ( per fortuna) ricordi che conservo, presi un po’ qui e un po’ là;  forse le cose si sono svolte diversamente, non so, ma oggi mi fa piacere raccontarli così. Io non me ne rendevo conto, ma  Atri stava affrontando il delicato passaggio dall’ottocento alla modernità e tanti suoi cittadini la stavano aiutando in tale compito, lavorando con serietà ed impegno. Grazie anche a loro che hanno dedicato le loro forze all’interesse pubblico, la nostra città non è diventa come uno dei tanti paesi abbandonati dell’interno, che conservano solo il loro passato, mattoni e ricordi. Speriamoche oggi ce ne siano ancora di tali uomini, speriamo…..

CLAUDIO VARANI