Pubblicato Venerdì, 01 Giugno 2012
Scritto da Guido Alferj

Commosso ricordo di PAOLO PENSA, Ambasciatore di umanità nella martoriata terra jugoslava
LA STORIA DI ALADIN, BAMBINO BOSNIACO MUTILATO, RESTITUITO ALLA VITA CON UN GESTO DI CORAGGIO
di Guido Alferj


Chissà se ad Aladin qualcuno ha detto che Paolo Pensa, l’ambasciatore, il suo “secondo papà” come lui lo chiamava, se n’ è andato per sempre. S’erano incontrati qualche volta negli ultimi anni, Aladin cresceva (oggi ha 22 anni) e l’ ambasciatore invecchiava. Paolo Pensa qualche tempo fa mi aveva raccontato  l’ultima visita che aveva fatto a Stellata di Bondeno, in provincia di Ferrara, dove il ragazzo viveva con i genitori e le due sorelle. “Ormai parla un ottimo italiano e anzi anche un po’ di dialetto emiliano”, mi aveva raccontato con una punta di orgoglio. E la gamba di Aladin, gli avevo chiesto, come va la sua gamba? “Perfetta, mi aveva risposto, la muove come se fosse la sua vera gamba”.

Aladin la sua vera gamba destra l’aveva persa tanto tempo fa, nel 1995, maciullata dall’esplosione di una granata lanciata dalle milizie serbe a due passi da casa sua, a Bihac, nel cuore della Bosnia musulmana, durante quella guerra che aveva trasformato l’ex Jugoslavia in una sterminata macelleria. Aveva cinque anni Aladin Hodzic e non riusciva a rendersi conto di non avere più la sua gamba destra. “Piange in continuazione – mi raccontava allora il padre Abdullah che sbarcava il lunario suonando la fisarmonica nei bar e nei ristoranti del paese – non vuole più farsi vedere dai suoi compagni di asilo e chiede sempre dove sia finita la sua gamba, vuole che qualcuno gliela riporti…”

Ho visto per la prima volta Aladin nell’agosto del ’95, davanti ad un albergo di Zagabria. Un ciuffo biondo, biondissimo che gli copriva parte della fronte, uno sguardo smarrito, le due piccole grucce su cui si appoggiava. Sapeva che lo stavano portando via, lontano dalla sua casa, dai suoi amici. Ad accoglierlo, nella capitale croata, Paolo Pensa, l’ambasciatore italiano che aveva mosso mari e monti per fare uscire da Bihac Aladin, per portarlo in Italia e affidarlo al centro Inail di Vigoroso di Budrio, vicino Ferrara. Lì gli avrebbero dato una gamba nuova di zecca, altamente tecnologica, tutta plastica, carbonio e leghe speciali, leggera e resistente.

Tutto era cominciato per caso, qualche settimana prima, all’inizio di agosto del ’95. Io, come tanti altri colleghi giornalisti, inviati di ogni parte del mondo, in quel periodo facevamo la spola tra Zagabria, Belgrado e Sarajevo. Due guerre stavano sconvolgendo quell’area dei Balcani così vicina a noi per storia e per cultura. Serbi contro croati da una parte e serbi contro bosniaci dall’altra. In quel momentola Croazia, che si era dichiarata indipendente solo quattro anni prima, si era ripresa con la forza delle armi quei territori che erano stati occupati dalle milizie paramilitari di Milosevic. In particolarela Krajina, una vasta regione alle spalle di Spalato, era stata liberata con un’ operazione militare  rapida e violentissima (chiamata “oluja”, tempesta) che provocò un migliaio di morti e un esodo di almeno 300.000 civili serbi, costretti a fuggire con ogni mezzo verso Belgrado.

Per la Croaziafu una grande vittoria, il recupero della Krajina fu l’episodio che mise fine a quattro anni di guerra e che ridiede linfa al suo orgoglio nazionalista. E che riportò un po’ di tranquillità nel paese. Proprio per dare un senso a questa ritrovata serenità, una sera l’ambasciatore italiano in Croazia, Paolo Pensa, invitò a cena nella sua residenza, sulle colline di Zagabria,  una decina di giornalisti italiani. C’ero anch’io (che lavoravo allora per Il Messaggero) insieme a Giuseppe Zaccaria, inviato de La Stampa, Luciano Gulli del Giornale, Antonio Affaitati e Franco Di Mare della Rai, Ettore Mencacci dell’Ansa, Mauro Montali dell’ Unità e qualcun altro. Con Paolo, che era in Croazia da più di un anno, avevo stretto un rapporto di amicizia molto intenso, le comuni origini abruzzesi (lui di Atri, io di Pescara) avevano aiutato questo nuovo legame. A metà serata arrivò anche Riccardo Orizio, un inviato del Corriere della sera. Era stato in Bosnia, in una zona in quel periodo particolarmente martellata dai mortai serbi. Il racconto delle stragi e delle violenze di cui Orizio era stato testimone ci colpì molto. E colpì molto Pensa la vicenda di due bambini che avevano perso una gamba nel bombardamento di Bihac e che solo per miracolo erano sopravvissuti. I due bambini si chiamavano Sanja, sette anni e – appunto- Aladin che allora di anni ne aveva cinque.

Paolo Pensa il giorno dopo era già al lavoro. Aveva mobilitato l’ambasciata (un bel palazzo austro-ungarico nel cuore di Zagabria di cui ricordo ancora l’indirizzo,  Meduliceva, 22), aveva chiamato gli uomini della Cooperazione italiana e aveva deciso di aiutare in ogni modo quei due bimbi sfortunati. Si mise in contatto con l’Istituto di Budrio, specializzato nella costruzione di protesi e nella riabilitazione e due giorni dopo un convoglio della Cooperazione (guidato da Marco Beci, un mio caro amico che otto anni dopo fu tra le 19 vittime dell’attentato contro gli italiani a Nassiryia, in Iraq) portava a Zagabria Aladin e Saja.

Nel piazzale dell’ hotel Intercontinental della capitale croata ci fu il primo incontro tra Aladin e Paolo Pensa davanti ai fotografi e alle telecamere di tutto il mondo. Paolo aveva le lacrime agli occhi, a tempo di record era riuscito (con l’aiuto di Beci) a realizzare un’impresa che sembrava impossibile, far uscire dalla Bosnia in fiamme (già arrivavano notizie di nuovi bombardamenti, di stragi, di violenze) i due bimbi mutilati, che vennero subito dopo trasferiti con i familiari nel Centro Inail di Budrio dove vennero loro costruite e applicate, in sostituzione degli arti amputati, le protesi..

La famiglia di Sanja tornò in Bosnia, quella di Aladin rimase in Italia. “Ogni volta che rivedo Aladin – mi raccontò Pensa – mi ritornano in mente quegli anni terribili, la guerra, le violenze, il clima di terrore che si viveva nei Balcani”. Sì, proprio così. Ma la vicenda di Aladin e di Sanja, in quel buio periodo, portò davvero un raggio di sole e di speranza. Una vicenda che ho voluto raccontare anche per rendere onore (ed un doveroso omaggio alla sua memoria) ad un ambasciatore che lasciò da parte formalità diplomatiche e atti burocratici per rendersi protagonista di un atto di coraggio e di amore.

Guido Alferj