Pubblicato Mercoledì, 30 Luglio 2014
Scritto da Santino Verna

LE OSTIAROLE

DALLE MANI DELLE CLARISSE IL PANE PER LA S.MESSA

Le clarisse di Atri non sono mai state denominate “ostiarole” o “suore delle ostie”. Queste denominazioni popolari sono cadute sulle Figlie di S. Giuseppe, congregazione nata a Rivalba, presso Torino, nell’ambito della santità sociale della fine del XIX secolo.

L’attività della confezione delle ostie per il sacrificio eucaristico, pur essendo molto importante, non è la prima cosa che si pensa quando si nominano le monache della città degli Acquaviva. Ma ci si pensa pure. Durante una gita primaverile ad Assisi, con un gruppo di ragazzi della parrocchia della Cattedrale, era in programma la visita subito dopo il pranzo al sacco al Protomonastero di S.Chiara. Quando un ragazzo sentì parlare delle damianite disse in un batter d’occhio: “E non ce le danno le ostie e i biscotti?”. Evidentemente il ricordo della comunità claustrale di Atri gli fece pensare oltre alle delizie dolciarie, ai ritagli che a volte cadono per terra e lasciano una bianca traccia nei pressi del monastero. Sembra una versione nostrale della fiaba di Hansel e Gretel, ma qui c’è il vantaggio del solare habitat cattolico, in luogo dell’algido ambiente luterano.

La confezione delle ostie prevede il dispositivo o meglio il “ferro” che in qualche modo caratterizza le particole. C’è la tradizionale immagine della croce con i chiodi e il trigramma JHS, le cui origini risalirebbero al IV sec. quando durante la battaglia di Ponte Milvio, l’imperatore Costantino lo vide sul labaro: “in hoc signo (vinces)”, con questo segno vincerai. Per ricordare tale evento all’inizio del XX secolo, Papa Sarto volle la realizzazione di una chiesa, parrocchia denominata “Santa Croce al Flaminio”. E’ parrocchiano di codesto piviere Francesco Saverio Garaguso.

Nel caso delle monache di Atri il trigramma è quello di S. Bernardino da Siena: Jesus Hominum Salvator, Gesù Salvatore degli uomini. S.Bernardino è patrono delle province religiose dei Minori e dei Conventuali e in qualche modo rappresenta l’unione delle due obbedienze, perché pur essendo della corrente osservante, volle morire a L’Aquila tra quella conventuale.

Il ferro delle ostie è analogo a quello di alcuni dolci abruzzesi che richiamano l’attività profana delle claustrali: le neole e le pizzelle. Le prime, tipiche del primo Abruzzo Ulteriore, sono sfacciatamente atriane, perché la denominazione è propria della città dei calanchi: le nuvole. La forma del dolce, farcito con la marmellata d’uva, ricorda una nuvoletta. Le seconde, diffuse nell’Abruzzo Citeriore, più morbide delle prime, più raramente farcite, richiamerebbero vagamente la pizza o forse la pezza, lo strofinaccio. Infatti si possono dire anche “pezzelle”. Il ferro serviva a caratterizzare queste delizie, perché veniva impresso lo stemma di famiglia o le iniziali del capofamiglia. Erano i dolci che si servivano nei ricevimenti nuziali, prima del giorno in cui avveniva lo sposalizio.

Le clarisse sono legate alla confezione delle ostie per l’amore che Chiara nutrì per il sacramento dei sacramenti. Infatti, secondo la tradizione, la Pianticella mise in fuga i saraceni tenendo a guisa di spada l’ostensorio. E così è raffigurata nell’iconografia. Nella chiesa delle clarisse di Atri, Umberto Bartoli, artista fiorentino che ha lavorato anche per Don Giuseppe Padovani, amico di Don Lorenzo Milani, la Santa ha in mano un ostensorio a tempietto, tipicamente ambrosiano che non ricorderebbe l’espansione di Milano fino a Perugia, avvenuto nel Rinascimento, ma la custodia dell’Eucarestia ai tempi di Francesco e Chiara, o meglio la custodia che si avvicinerebbe (il condizionale è d’obbligo) all’originale. S. Chiara è definita la “vestale dell’Eucarestia” e le vestali erano donne addette al fuoco sacro che per questo grave servizio non prendevano marito.

Le monache di Atri confezionano le ostie grandi (per il sacerdote) e quelle piccole o particole (per i fedeli), per il monastero (ovviamente) e le chiese di Atri e dintorni. Con la chiusura dell’istituto delle Figlie di S. Giuseppe a Pescara, nei pressi della Cattedrale di S. Cetteo e la concentrazione delle Suore a Chieti, presso la chiesa di Ognissanti, anche alcune parrocchie della città dannunziana si servono delle clarisse atriane. L’archeologo Ettore Dragani di Villa Caldari di Ortona parla del sapore tutto particolare delle monache di Atri. E’ l’amore che mettono le clarisse nell’impasto e nella cottura. E’ davvero il sapore del pane che nello stesso tempo non è pane.

Nel 2005 si pensò ad un piccolo museo delle ostie nel monastero di S. Chiara con gli attrezzi antichi e nuove per il pane eucaristico. Era l’anno dell’Eucarestia, l’anno del trapasso di S. Giovanni Paolo II, pellegrino in Atri, e il Congresso Eucaristico Nazionale si teneva a Bari, la meravigliosa città-ponte tra Oriente e Occidente, seconda metropoli del Mezzogiorno d’Italia. Presso le clarisse, in quei giorni, si tenne un piccolo Congresso Eucaristico Parrocchiale, protesi all’evento che avrebbe avuto la conclusione di Benedetto XVI.

Del Museo delle ostie non se ne parlò più, come non si parla più del Museo Scenografico, nel Teatro Comunale o quello della Vetrata Artistica a Porta S. Domenico. Atri di musei ne ha troppi, direbbe qualche paesano infastidito, pensiamo alle cose serie e che creano opportunità di occupazione. Ma a ben pensarci il Museo delle ostie e delle ostiarole sarebbe stato un felice epilogo dell’Etnografico e avrebbe prolungato la visita ad Atri, con tutti gli annessi e connessi dell’indotto. E’ proprio vero, tanto per rimanere nel tema del frumento, che chi ha il pane non ha i denti e chi ha i denti non ha il pane.

SANTINO VERNA