Pubblicato Lunedì, 28 Maggio 2012
Scritto da Aristide Vecchioni

LA CRIPTA DELLA BASILICA CATTEDRALE DI ATRI
di Aristide Vecchioni 

 

  

                                   Fuge! Tace! Quiesce!
    (Vivi in solitudine. Fai silenzio. Cerca la pace.)
          Arsenio abate, IV sec.

 Il rifugio dell’anima.

Dal greco krùptos (nascosto), il termine designò in origine la rete di grotte scavate nella roccia i cui recessi venivano adibiti a piccoli santuari. Venne, poi, genericamente usato per indicare ambienti sotterranei che assumevano una efficacia simbolica legata alla terra, alma mater. Lasciare la luce della superficie per immergersi nell’oscurità dell’ipogeo generava una condizione emotiva peculiare di meditazione sulla precarietà dell’esistenza e sul destino umano. L’atmosfera di tenebre e di silenzio sottraeva il tempo misurabile della vita a qualsiasi dimensione soggettiva conferendo alla coscienza uno stato atemporale, cioè il senso psicologico dell’eternità. Rifugio di corpi, soprattutto di sentimenti, la cripta era lo spazio segreto delle antiche culture: un sacrario ideale della vita dove cielo e terra, visione solare della ragione e lato notturno dell’animo si congiungevano magicamente per affrontare il dramma universale della morte secondo schemi mitologici e sedicenti verità religiose. Tornano alla mente i sotterranei delle piramidi ove il faraone deceduto continuava ad esercitare metaforicamente le funzioni amministrative circondato dai dignitari che si erano fatti seppellire con lui (1). La statua di Iside, guida dei defunti, li vegliava amorevolmente. Ricordiamo gli enigmatici labirinti etruschi, con le annesse tombe ove si svolgevano le fiaccolate nell’equinozio di primavera. Era il culto di Phersipnai (Persefone) che, rapita dal dio degli Inferi, tornava ogni anno sulla terra quale prorompente forza rigeneratrice della natura (2). Nella società paleocristiana le aree religiose sotterranee venivano chiamate indistintamente catacombe (catà – cumbas = presso la cavità o cripte). Esse, in armonia con il dogma della resurrezione, avevano la duplice funzione di ipogeo funerario e di oratorio: vi si inumavano i morti e si pregava. Più tardi, proclamata la libertà di culto (editto di Milano del 313), un crescente sviluppo di architettura sacra caratterizzò i secoli successivi. Si innalzarono le cattedrali con le ardite torri campanarie. All’interno dei templi, maestose strutture venivano ingentilite con elementi marmorei e musivi. Gli spazi semicircolari delle absidi, affrescati con scene evangeliche, accoglievano gli altari maggiori. Tutto emanava splendore ad maiorem dei gloriam. Solo le cripte rimanevano severe e spoglie. I devoti vi scendevano per genuflettersi dinanzi alle reliquie o ai santi corpi illuminati dai ceri. Quegli ambienti seminascosti non erano solamente testimonianze di un aspetto particolare della fede (culto dei martiri). In realtà, giova ripeterlo, essi ispiravano tematiche potenti quali: la fragilità della vita e i transeunti inganni del mondo, la buona e la cattiva morte, la resurrezione e il giudizio universale, la beatitudine paradisiaca in una luce “senza tramonto”(3) o l’eterno tormento nel “fuoco inestinguibile”(4).

 Simbologia e fede.
Queste considerazioni preliminari sugli ipogei non sono formulate a caso. L’arte non è solo linguaggio, forma, tecnica. Essa incarna sfondi emotivi e interni d’anima spesso sottovalutati e che, viceversa, sottendono l’intimo senso della logica costruttiva. Ma veniamo alla cripta del duomo di Atri. Colpisce subito il singolare varco esterno dall’antico chiostro benedettino (5). Di norma, nell’architettura romanica sacra, l’accesso alla cripta veniva garantito da una rampa interna della chiesa (6). L’ingresso centrale e le quattro piccole finestre monofore (due per lato), molto strombate, lasciano filtrare luce nel sotterraneo. Il portale presenta una sequenza di piedritti (sostegni verticali) sotto quattro archi concentrici, incassati nel muro con distribuzione geometrica discendente , a risalto. Come sottolinea il Gavini (7), siamo in presenza di una tipologia stilistica promossa dalla “scuola di S. Liberatore a Maiella” il cui modello architettonico, nel basso medioevo (XI-XII sec.), si diffuse in tutta la regione (8). Le arcate degradanti con i motivi decorativi, (palmette a pannocchia (9), ovoli, fuseruole, tortiglioni), la sagoma del portale e la varietà delle aperture ne sono una interessante riprova.  Del resto, è facile trovare altri esempi di stile sanliberatoriano nelle arcate a sesto tondo e nella spaziale limpidezza del chiostro retrostante, nonché nei numerosi frammenti lapidei ivi collocati. Sono avanzi di ciborio, portale, incorniciature della precedente chiesa benedettina. In essi compare un fantasioso repertorio figurativo: grappoli d’uva, foglie ispide d’acanto, uccelli bezzicanti, fiorellini a stella, martiri con la palma, S. Giorgio e il drago, scenette singolari come Giuda impiccato. Sulla lunetta sovrastante il portale, una nitida composizione scultorea raffigura due fiere in lotta, mentre un’altra coppia di animali affrontati compare su una delle finestre laterali. Ovviamente, sono testimonianze parziali, frammentarie dell’arte romanica e, tuttavia, di ampia rilevanza storico-culturale per la natura simbolica della loro formulazione. La segreta vitalità dell’arte sacra medievale (e non solo) poggia sull’allegoria iconografica: figurazioni pregnanti che suggeriscono concetti, idee, valori, emblemi della fede. Facciamo qualche esempio osservando i particolari scultorei superstiti della vecchia chiesa benedettina (1080-1100). Gli animali mostruosi evocano le tentazioni del peccato; la rosa è il sangue versato da Cristo; le sinuose palme ricordano i martiri; i grappoli d’uva indicano la vendemmia del Giudizio Universale; l’intreccio floreale (selva) vuole rappresentare l’oscurità della coscienza; i leoncini incarnano le virtù cardinali (fortezza, giustizia, prudenza, temperanza); i cerchi concentrici alludono alle sfere del paradiso e così via. In sintesi, le avvincenti tracce della precedente chiesa benedettina (messe in vista nel chiostro e all’ingresso della cripta) si ispirano ad una teologia monastica (10) contemplativa, sapienziale, lontana dalla complessa ed elaborata dottrina tomistica. Una precettistica ideologica e artistica (nata nei monasteri) che proiettava le intuizioni mistiche dei puri di cuore sull’orizzonte della vita e dell’emozione umana come spectaculum veritatis, rigenerazione spirituale e prospettiva di salvezza.


La cisterna – cripta.
Una piccola gradinata in pietra immette in una sala sotterranea semiquadrata (m.25 di lunghezza e m. 24,20 di larghezza), posta a 6 metrial di sotto del livello della piazza. L’interno è a cinque navate con volte a crociera, sorrette da venti massicci pilastri di genus latericium (mattoni crudi e parzialmente cotti) e signinum (rivestimento con frammenti di materiale fittile e malta). Per ovviare alle lesioni subite nel tempo essi sono stati più volte rafforzati e alcuni costruiti ex-novo nei restauri 1954-1964. I muri perimetrali sono formati da blocchi di puddinga dura (roccia sedimentaria di ciottoli e ghiaia) ben squadrati di varia dimensione e connessi a secco, senza malta. Il loro spessore oscilla tra i 170 e 180 cm. Ricordano, quodam modo, gli arcaici macigni pelasgici dell’acropoli di Alatri e di altre antichissime città. Per alcuni studiosi, queste possenti muraglie risalirebbero al V sec. a.C. e si ignorano la loro funzione e destinazione d’uso. Sembra, invece, accertata la presenza in situ di una cisterna pubblica nella prima metà del III sec. a.C. Priva di copertura detta “conserva d’acqua” potabile vantava una capacità di contenimento attorno ai 24 mila metri cubi. Verosimilmente, veniva alimentata da sorgenti elevate o da sistemi di captazione sotterranea sia di acqua di falda che piovana. Quest’ultima, assorbita da terreni permeabili e percolanti dalla volta e dalle pareti di cunicoli collettori, era convogliata su lastre di pietra e argilla (11). Due bocche, a sezione quadrata, in lieve pendenza, indicano i punti terminali di condotte (gore) da cui l’acqua defluiva: una è posta nell’angolo profondo della parete sud-est e l’altra al centro della parete di fondo (12). Superfluo precisare che un siffatto deposito idrico serviva all’approvvigionamento quotidiano della comunità del tempo e allo sviluppo della civitas stessa. Nel II-III sec. d.C., l’originaria conserva d’acqua subì una trasformazione strutturale. Vennero costruiti possenti pilastri per erigere un nuovo complesso architettonico sovrastante, formato da un vano rettangolare con una vasca al centro il cui pavimento musivo (riaffiorato nei lavori 1954-1964) è decorato, in bianco e nero, con simboli zoomorfici marini (delfino ed altri pesci). Quale funzione aveva quel nuovo edificio pubblico in piena età imperiale? Attorno a questo interrogativo ruotano due ipotesi. Alcuni studiosi (13) parlano di una struttura termale (piscina limaria) limitata ai soli bagni freddi (frigidarium) dal momento che l’assenza di ogni minima traccia di impianti da riscaldamento porterebbe ad escludere un ambiente per bagni caldi (calidarium). Altri, invece, vedono in quel complesso un antico “mercato coperto” per la vendita di carne e pesce, macellum et forum piscarium (14). Lo confermerebbero la pianta centrale con vasca interna poco profonda e gli ambienti simili ai mercati di Alba Fucens, Herdonia, Saepinum e Neapolis. Comunque sia, il sotterraneo venne adibito a cripta nel XII secolo.

 

Le pitture murali.
I numerosi affreschi della cripta, sparsi sulle pareti e sui pilastri, sono ascrivibili alla seconda metà del XIV secolo e ai primi decenni del successivo. Non si hanno notizie degli artisti che vi lavorarono. Forse erano talenti locali o capi-bottega di territori vicini. Lo sviluppo del monachesimo e la diffusione della mistica ad esso legata favorivano tecniche, idee, stimoli anche nei centri minori. Non sorprende, quindi, se il gruppo di opere in esame si riveli una docile espressione di quel romanico-gotico che, sviluppandosi ovunque, in Europa, mutava da regione a regione. Era una cultura devozionale che si poneva in stretto rapporto con le tradizioni locali, la vita quotidiana dei fedeli e i loro problemi. Diciamo subito che manca in queste pitture murali l’impronta di una personalità altamente geniale e fortemente dominante come, ad esempio, quella del Delitio. In nessun modo esse raggiungono la balzante plasticità del ciclo absidale dell’area superiore. Tuttavia, appaiono evidenti gli influssi della scuola umbro-marchigiana: realismo icastico, equilibrio geometrico, accordi cromatici tenui, figure frontali senza animazione. Inoltre, particolare interesse riveste l’apparato iconografico, orientato all’esaltazione della maestà del Cristo e della Vergine, nonché al culto dei Santi. Notevole è il Salvatore benedicente che, seduto, campeggia entro una mandorla con un libro aperto, simbolo della religione rivelata (15). Ai lati, sono disposti: la Madonna, gli angeli, forse S. Giovanni evangelista e, sicuramente, S. Giorgio in tunica bianca, spada e speroni da cavaliere. Suggestivi appaiono ancora due gruppi di Santi e Sante, cinque per ciascuno (16). Sono quasi tutti riconoscibili dai loro attributi simbolici. La prima fascia presenta: S. Leonardo con palma e ceppi da carcerato; S. Lorenzo con palma e graticola; S. Antonio abate, con bastone a gruccia e campanello; S. Giacomo apostolo (Iacobus Maior) con bordone, cappello da pellegrino e libro; un Martire, non identificabile, con palma di datteri e libro, forse un Maestro della Chiesa.  La seconda striscia riguarda: S. Caterina d’Alessandria, martire regina, con palma, corona e ruota frantumata; S. Elena, madre di Costantino, con corona, abito imperiale e croce; S. Maria Egiziaca, avvolta nei lunghi capelli mentre guarda un angelo; S. Maria Maddalena con il vasetto di olio profumato (17); S. Lucia con palma e candela. Ancora un affresco di S. Caterina di Alessandria. Questa volta con il Battista (18). Nel riquadro la regina martire regge con una mano la ruota dentata della tortura e con l’altra il manto regale. A sua volta S. Giovanni sostiene con un dito il sacro agnello crocigero in una sfera e con la mano sinistra mostra un cartiglio con l’iscrizione: ecce / agnus / dei / ecce / qui / tolli…/ sp (19). L’affresco risente l’influsso della iconografia bizantina. Com’è noto, la tradizione paleocristiana voleva S. Giovanni coperto da ruvide pelli, con capigliatura e barba incolte come si addice ad un penitente eremita nel deserto. Viceversa, l’ignoto artista della cripta, veste il profeta con abito di antica foggia, segnato da panneggi e modulo facciale incorniciato da morbidi capelli e curata barba. Allo stesso ambito stilistico appartengono altri affreschi votivi quali S. Antonio abate con barba bianca, bordone e campanello; S. Paolo e S. Pietro; S. Cristoforo col bambino sulle spalle; Cristo in trono conla Vergine; Beata Margherita da Cortona; Madonna col bambino e i Santi Pietro e Paolo. Le figure, purtroppo, sono deteriorate. Il tempo e l’umidità non perdonano. Vi sono parecchi vuoti. I particolari sono di oscura lettura. Tuttavia, i tipi fisici frontali, la staticità dei volti, l’eleganza delle vesti, la persistenza di lumeggiature che marcano le pieghe dei manti, lasciano intuire una sopravvivenza di lontani elementi bizantineggianti, un po’ involgariti dal gusto locale e in fermento con i nuovi orientamenti artistici che accompagnarono “l’autunno del Medioevo” preludendo alla civiltà rinascimentale.

 


Uno stemma enigmatico.
Addosso al muro settentrionale della cripta, vi è un sarcofago scoperto, in laterizio e di elementare semplicità. Esso custodiva la salma del “Beato Nicola”, un personaggio leggendario, un oscuro mendicante che la pietà popolare additò come un santo uomo da onorare liturgicamente. Il fascinoso mondo religioso non lievita solo con le verità dommatiche e con le dottrine teologiche. Ha bisogno dell’ingenuo ardore e della commossa fantasia dei ceti umili. Il culto devozionale rimane vivo ed efficace anche grazie ai sussulti emozionali del popolo, Ma torniamo sull’argomento. Alla fine del XV secolo, il vescovo Matteo de Judicibus, trasferì la venerata spoglia dalla cripta alla superiore chiesa (20). Sul sarcofago originario è rimasta una pietra scudiforme, con mezzaluna e tre stelle incise. Un rebus dai significati nascosti che, forse, non troverà soluzione. Sorge il quesito: tale stemma è un elemento decorativo oppure ha una equivalenza simbolica? La mezzaluna è il simbolo dell’Islam. Lo sappiamo bene. Tuttavia, nella sorprendente foresta della iconografia cristiana, la luna e le sue fasi sono sempre associate ad eventi celesti. Teofilo di Antiochia (II sec. d.C.) vedeva nel sole l’immagine di Dio e nella luna quella dell’umanità. Origene (184-254) la paragonava alla Chiesa che, folgorante di luce argentea, la trasmette ai credenti. Anche la Madonnaveniva paragonata alla luna e raffigurata assisa in trono su una falce lunare. Le tre stelle, infine, potrebbero alludere alla Trinità. A questo punto, proviamo a tirare le somme e a formulare una ipotesi. Se la Chiesa, come la luna, veniva considerata una fonte di luce divina riflessa e se la Trinitàera il mistero teologico centrale della cristianità, non resta che compendiare l’effige del sarcofago nella formula medievale: uno lumine Trinus et Mater ecclesia, Trinità e Chiesa in un solo splendore.

 ARISTIDE VECCHIONI

 

Note

 1)      cfr. L.V. Grinsell, Piramidi, necropoli e mondi sepolti, Newton Compton, 1978;

2)      cfr. L. Pascal, L’oltretomba dei pagani, Alkaest,1981, G. Feo, Misteri Etruschi, Stampa alternativa, 2000;

3)      S. Gregorio Nazianzeno, Orationes 40.41;

4)      Matteo, 5, 22-29; Marco 9, 43-48;

5)      Per Gavini “il chiostro della cattedrale di Atri, che oggi vediamo, è il più antico chiostro che rimanga in Abruzzo”. Cfr. Ignazio Carlo Gavini, Storia dell’architettura in Abruzzo, Costantini Editore, 1980, Vol. I, p.103;

6)      Anchela Cattedraledi Atri aveva una scalinata interna che collegava l’aula superiore con la cripta. Il passaggio venne eliminato nel 1763 durante i rimaneggiamenti barocchi ed è stato riportato alla luce nei recenti lavori di restauro 2004-2009, ma non è ancora agibile.

7)      I.C. Gavini, Storia dell’architettura in Abruzzo, op. cit. Vol. I, p.102;

8)      La chiesa di S. Liberatore si erge sulle falde settentrionali della Maiella, in un profondo vallone solcato dal fiume Alento. Sin dalle sue origini (IX sec.), monastero e chiesa costituirono una delle abbazie più importanti dell’ordine benedettino cassinese. Il complesso venne devastato dal terremoto del 990, ricostruito a fundamentis dal preposito Teobaldo in dodici anni (1007-1019), ampliato nel 1056 dal priore Adenolfo e completato nel 1080 da Desiderio, abate di Cassino e, poi, Papa col nome di Vittore III. Il cenobio di S. Liberatore non fu solo epicentro di cultura religiosa ma rappresentò una scuola architettonica i cui caratteri  (impianto delle chiese a tre navate, portali tipici, elementi decorativi ben definiti) si irradiarono su tutto il territorio fissando i criteri costruttivi e i modelli stilistici basilari del romanico in Abruzzo.

9)      L’espressione è del Gavini, cfr. op. cit. I vol., p. 90;

10)   La “teologia monastica” è un’espressione di Jean Leclercq dell’abbazia di St. Maurice Clervaux (Lussemburgo); vedi: I. Biffi – C. Maragelli, Invito al Medioevo, Ed. Jaca Book, 1982, p.47;

11)   Il sistema idrico di condotte sotterranee è antichissimo. Le ricerche archeologiche, fatte nel vicino Oriente, e le iscrizioni venute alla luce (come quelle di re Mesha di Moab, XI sec. a.C.) inducono a credere che nelle città assire del II e I millennio a.C. esistessero cunicoli collegati a falde acquifere subsuperficiali e scavati in leggera pendenza per assicurare il costante scorrimento dell’acqua all’esterno (odierni qauat o kauat iraniani, falg dell’Arabia Saudita). In età preromana, acquedotti simili erano presenti nel territorio di Hatria Picena. Le tecniche costruttive andarono perfezionandosi nei secoli successivi a seguito di contatti con civiltà più evolute. I canali sotterranei vennero dotati di pozzi per aerazione e, nei punti di sbocco, furono costruite fontane e vasche. Le fontane, ubicate soprattutto fuori la cinta muraria (extra-moenia), si aprivano su spazi di verde con sobrie facciate in laterizio e pietra, con vasche di raccolta, cannelle e canali di scolo. Una rigorosa normativa, contemplata nello Statuto municipale del 1531, agli artt. CCXXIV, CCXXV, CCXXVI, CCXXVII, ne disciplinava l’uso disponendo vigilanza costante contro i rischi di inquinamento e degrado. Ulteriore testimonianza sull’importanza delle strutture idriche locali emerge nell’opera “Il Regno delle Due Sicilie” (Vol. XVII, fasc. 2, p.13, Napoli, 1858), in cui si sottolinea la presenza di 25 fontane ancora in funzione nel territorio atriano, nonché le qualità organolettiche delle loro acque. Molte fontane sono scomparse e le poche rimaste non versano più le acque copiose, leggere e cristalline di un tempo;

12)   Sembra che i condotti, relativi ai due sbocchi, fossero collegati ad impianti idrici esistenti nell’area urbana più elevata, adibita a Forum (attuale piazza dei Duchi Acquaviva) cfr. L. Sorricchio, Hatria – Atri, 1911, Roma Vol.I p.252;

13)   Cfr. L. Sorricchio, Hatria – Atri, op. cit., Vol. I, p.251; “ B. Trubiani, La Basilica Cattedrale di Atri, op. cit. p.245;

14)   G. Messineo, Il complesso sotto la Cattedrale di Atri, in Dalla valle del Piomba alla valle del Basso Pescara, Fondazione della Cassa di Risparmio della Provincia di Teramo, Vol. I, p.112;

15)   Affresco dipinto sul quarto pilastro, seconda fila;

16)   Vedi terzo pilastro, seconda fila;

17)   Nel Medioevo, Maria Maddalena fu tra le sante più venerate. I primi testi, che ne consacrarono il culto, risalgono all’VIII secolo e sono attribuiti a Beda il Venerabile (672-735). Carlo D’Angiò, conte di Provenza, fece erigere una basilica in suo onore nel 1279. Secondo la Legenda Aurea fu la donna che seguì Gesù dalla Galilea ai piedi della Croce. Ella cosparse poi la salma del Redentore di balsami profumati e fu la prima a vederlo risorto. Fu definita Apostola Apostolorum e la tradizione vuole che, alla sua morte, fosse portata in cielo dagli Angeli. L’assunzione in cielo di Maria Maddalena è stata il soggetto di numerose pitture eseguite da Patinir, Correggio, Tiziano, Tintoretto, Rubens e altri;

18)   Vedi pilastro della seconda fila;

19)   Le parole sono quelle che la tradizione attribuisce a Giovanni Battista quando battezzò Gesù sul Giordano: “Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati dal mondo”;

20)   B. Trubiani, La Basilica Cattedrale di Atri, op. cit. p.249.