Pubblicato Mercoledì, 23 Luglio 2014
Scritto da Santino Verna

I BELGIAROLI ATRIANI

VOLTI E STORIE DI UOMINI CHE NELLE MINIERE HANNO SCRITTO LA SCINTILLANTE STORIA DI ATRI

Dopo l’ultima guerra mondiale cominciò l’amara pagina dell’emigrazione in Belgio, paragonabile a quella di tanti stranieri provenienti dal Sud del mondo, nei Paesi eufemisticamente denominati “in via di sviluppo”, sbarcati in Italia. Si usciva da una brutta guerra e il lavoro mancava.

 

Il Belgio con le sue miniere offriva lavoro, anche se sui manifesti comparivano maggiormente gli aspetti allettanti come il fatto che il minatore poteva essere raggiunto dalla famiglia. Dopo due visite di controllo per accertare la sana e robusta costituzione, a Teramo e Milano, si poteva finalmente partire. La permanenza in Belgio non durava molto tempo, ma era più la qualità degli anni che la quantità. Tante ore nel ventre della terra con la cattiva aria respirata portava al deterioramento dei polmoni.

Tornati ad Atri, e in altri luoghi d’Abruzzo (ricordiamo soltanto l’episodio di Marcinelle, simbolo degli emigrati di Manoppello), ancora giovani, ma con la salute segnata per sempre, i minatori (detti belgiaroli) potevano godere di non molti anni di meritato riposo. Per molti, sempre abituati a lavorare, era l’occasione di cominciare un nuovo lavoro, magari più calmo.

Le buone pensioni permettevano una vita dignitosa e questo metteva in moto l’indotto degli altri artigiani. Il muratore poteva maggiormente lavorare perché i minatori gli commissionavano bagni da fabbricare nelle case o altro e per questo il Belgio divenne sinonimo di America.

Partiticamente c’erano grosso modo due categorie di belgiaroli: i democristiani e i comunisti. Tutto però, difronte all’attaccamento per il paese natio, finiva a tarallucci e vino, anche se negli anni delle partenze l’affetto per lo scudocrociato e la bandiera rossa erano più sentiti rispetto ad oggi, dove partiti e partitini pullulano nel teatrino dell’intrallazzo.

La storia del Belgio della seconda metà del XX secolo è stata fatta dagli abruzzesi, non solo nelle miniere, perché ricordiamo la presenza simultanea al Parlamento europeo di tre illustri figli: Lorenzo Natali, il politico democristiano aquilano della corrente fanfaniana, Vito Saccomandi, docente di agraria originario di Isola del Gran Sasso e l’avv. Giuseppe (Pino) Zanni, ora residente a Roma, atriano verace, al quale lo scultore Giuseppe Antonelli ha dedicato un’opera in argilla che ritrae il professionista della città acquaviviana con il suo volto di antico aristocratico atriano. Il Belgio pertanto come tutta l’Europa tra la fine del XIX sec. e l’inizio del secolo breve, rischiò di essere abruzzese e non desta meraviglia se durante i mondiali del Brasile, qualche atriano, dopo l’eliminazione dell’Italia, ha fatto il tifo per la formazione transalpina. Meno italiana della rosa dell’Argentina, il Belgio è stato fatto dai conterranei di D’Annunzio e ai vertici della politica è salito Elio Di Rupo.

Tra i belgiaroli atriani ricordiamo Fileno Forcella, classe 1919, del rione S. Giovanni. Papà di Elio, attore, regista e autore teatrale è stato immortalato dal figlio nella dedica dell’opera “Tumà”. Quelle poche righe sono commoventi perché lo scrittore atriano, più volte premiato in Italia e all’estero, mette tutto l’affetto e l’amore verso il genitore morto prematuramente a 62 anni, mentre Elio cominciava l’attività teatrali con i drammi sacri e storici ad Atri.

I belgiaroli non hanno mai costituito un sodalizio cartaceo, ma un sodalizio affettivo sì. E’ commovente constatare durante le esequie di un minatore, la Cattedrale molto gremita. Sono i parenti del defunto, ma anche tutte le vedove e gli orfani dei minatori che ricompattano l’amicizia, più vera nei momenti della perdita del genitore. Significative furono le esequie di Carlino Castagna che raggiunse il fratello Carmine (Minuccio) in Belgio in giovanissima età, prima di sposarsi, immortalato nella documentazione del Museo Etnografico di Atri che ha dedicato una pregnante sezione al Belgio. Forse la parte più amara e più autentica del Museo voluto e realizzato da Ettore Cicconi. La Cattedrale, in quel freddo inizio di febbraio del 1994 che comportò il Mercoledì delle Ceneri con la neve, era pienissima. Carlino dopo sette anni e mezzo aveva raggiunto il fratello Minuccio, al quale era molto legato.

L’annuale festa era quella di S. Barbara, il 4 dicembre. Poiché la memoria è nell’imminenza dell’Immacolata, furono organizzati per varie edizioni i “faugni” e fu realizzata la piccola graziosa statua, destinata alla chiesa di S. Agostino, perché in quegli anni la Cattedrale, impraticabile per i penultimi grandi restauri, aveva temporaneamente ceduto le funzioni parrocchiali, diocesane e capitolari alla vicina succursale. L’arrivo del simulacro fu accolto con grande gioia dai “belgiaroli” e dall’allora Parroco Don Bruno Trubiani che era andato anche a trovarli in Belgio, incontrando pure i sacerdoti operai.

Con la chiusura di S. Agostino per inagibilità, la festa di S. Barbara non si fece più, mentre nel corso degli anni i minatori morivano. La statua nel 2000, alla vigilia del ripristino della vecchia S. Caterina, per interessamento di Ettore Cicconi, fu portata in S. Francesco e collocata nella cappella di S. Gaetano sull’eponimo altare che così è diventato pure della martire del fuoco. Il nome Barbara è abbastanza diffuso in Atri, certamente più di Reparata (lo dicono pure gli psicologi che il primo nome fa più effetto del secondo, ormai in disuso, persino nella cittadina che la venera dal 1353 quale patrona del paese e dell’antica diocesi), ma la festa da ripristinare è rimasta ancora a “caro amico”.

E’ bello ricordare Remo e Mario Mattucci, Antonio Castagna, Remo Di Palma, Michele Schiavone, Luigi Friuli e tanti altri che dal Belgio hanno scritto e continuano a scrivere ancora adesso la scintillante storia di Atri.

SANTINO VERNA