I CALZOLAI ATRIANI

LA POESIA E LA BELLEZZA DELLE BOTTEGHE ARTIGIANE 

La categoria dei calzolai comprende tre settori: i calzolai propriamente detti, in grado di confezionare scarpe su misura, i ciabattini e i riparatori di scarpe vecchie. Come i sarti, avevano clienti sia in paese che in campagna, dove si recavano alle prime luci dell’alba, percorrendo il centro storico e mettendo paura a qualcuno che improvvisamente vedeva il maestro e l’aiutante.

Tra il calzolaio e l’agricoltore avveniva l’accordo detto “lu staje”, ovvero l’impegno riguardante le scarpe per tutti i membri della famiglia corrisposto da11 kg.di grano per ogni componente. In media in un anno in una famiglia si confezionavano circa 20 paia di scarpe e normalmente le scarpe duravano due anni. Il grano costava circa 6.000 al quintale e durante l’estate, quando il maestro si recava dalla famiglia per il compenso, il contadino oltre al grano offriva fagioli, patate, cipolle e aglio etc.

Il contratto (verbale) prevedeva che il giorno in cui il calzolaio lavorava nel casolare, la famiglia avrebbe offerto colazione, pranzo e cena. Tra le famiglie della parte intramurale il pagamento avveniva in moneta. Il calzolaio si occupava pure delle protezioni alle zampe dei cavalli per farli camminare sulla neve.

Tra i maestri delle scarpe ricordiamo Felice Liberatore che lavorò nelle botteghe di Piazza Martella e Porta Macelli. Negli ultimi anni di attività era in Via Pietro Baiocchi, nell’antica Via della Trinità, lungo percorso che conduceva Capo d’Atri alla piazza della verdura. L’angusta bottega era dominata dalla sua figura, rivestita dal grembiule blu scuro, mentre il sottofondo olfattivo erano i lucidi delle scarpe. Mastro Flicetto, com’era affettuosamente chiamato tutti i giorni si recava a piedi da Viale Risorgimento, dalla sua casa nei pressi della chiesa di S. Gabriele, al laboratorio che, il lunedì, per colonna sonora, aveva il rumore del mercato settimanale che si teneva nella via sottostante. Ebbe una lunga vita, perché incontrò sorella morte a 97 anni compiuti.

Un suo discepolo era il maestro Gabriele Romano, la cui bottega era in Piazza duchi d’Acquaviva, accanto al negozio di calzature del figlio Mariano. Nei momenti di pausa si sedeva sulla robusta panchina che guardava il palazzo ducale. Gabriele era nato il 21 agosto1920, aridosso della canonizzazione di S. Gabriele che cominciava ad essere venerato anche ad Atri, con i pellegrinaggi a piedi e più tardi con i camion di Italo Di Febbo, disponibili la domenica (il sabato si lavorava). Mastro Gabriele aveva la stessa tenuta di Mastro Flicetto quando era al tavolo di lavoro: il grembiule blu scuro e la bottega conservava lo stesso profumo.

Altro calzolaio del centro storico, trasferito nel rione S. Antonio, era Italo Lupoletti, classe 1922, morto nel 2011, l’anno dopo Gabriele. Papà dell’artista Luciano è stato immortalato dal figlio nella tela “L’erede al trono”, dove la tenerissima scena del nonno con l’omonimo nipote, non è solo illustrazione della trasmissione di un mestiere, ma consegna di un’eredità che va dal giardino dei valori all’affetto delle radici, dalla bellezza delle tradizioni alla storia della famiglia e di un popolo. La tela fu presentata nella mostra “Atriarte”, presso il Centro Servizi Culturali della cittadina acquaviviana (Palazzo Brandimarte), una delle più riuscite manifestazioni della Atri degli anni ’80.

A Portico Pomenti c’era Vincenzo Di Luzio che ha lasciato una preziosa testimonianza sull’arte della calzatura al fondatore del Museo Etnografico Ettore Cicconi, per la ricostruzione della bottega del calzolaio nel medesimo. Vincenzo girava il quarto S. Nicola con il motorino e lavorava con il cognato Gaetano Catarra, grande appassionato di bande musicali. Quando era il momento delle feste patronali, la prima cosa che domandava all’organizzazione era la banda, e in questo lasciava trasparire tutta l’atrianità.

Protettori dei calzolai sono i martiri SS. Crispino e Crispiniano che avrebbero esercitato il mestiere della confezione delle scarpe, ma i ciabattini atriani non hanno fatto manifestazioni esterne di venerazione, a differenza di Vigevano, dove vengono ricordati nella chiesa di Gesù Divino Lavoratore, un moderno edificio sacro come si evince dalla denominazione impossibile fino al XX sec. perché non si poteva concepire un Gesù Operaio. In questo si era più matteani che marciani. Si poteva capire e si capiva bene S. Giuseppe Lavoratore che addestrava all’arte del falegname il Redentore, ma non si andava oltre. La regalità del Cristo stonava con il concetto di lavoratore, artigiano e operaio e questo diede filo da torcere a Don Giovanni Rossi che dopo la IIa seconda guerra mondiale organizzò in Assisi la mostra su Gesù Lavoratore. Furono impegnati grandi artisti contemporanei che forse, per essersi misurati con un tema che per sovrintendente aveva un sacerdote, non sono mai entrati per il portone principale sui manuali di storia dell’arte, dove si preferiscono gli astrattisti e i realisti impelagati con la politica o la mondanità a tutta birra.

Pochi sono rimasti i calzolai ad Atri, si contano sulla punta delle dita, perché ora c’è l’angolo della riparazione delle scarpe nei centri commerciali. Ma quei settori non hanno la bellezza e la poesia delle botteghe di quelli che a Firenze si sarebbero detti “calzaiuoli”.

SANTINO VERNA