PERSONAGGI ATRIANI

VINCENZINO MARCONE: HA RESO PIU’ BELLA ATRI CON LA SUA SEMPLICITA’ E IL CALORE UMANO

Atriano quanto nome e cognome fu Vincenzino Marcone, immortalato dal fotografo-artista cav. Domenico Zincani come personaggio felliniano di Atri. Nel ritratto, davanti alla Cattedrale, anche la moglie Teresina, perché non si deve parlare di un personaggio, ma di due personaggi, perché andavano sempre insieme. “Ambedue” soleva ripetere Vincenzino.

Nome e cognome tipicamente atriani, perché Vincenzo era un omaggio al celebre predicatore spagnolo, venerato nella chiesa di S. Giovanni, riconoscibile dalla fiamma sul capo, dato che incarnava l’Angelo dell’Apocalisse. Qualche burlone comunista associava l’attributo di S. Vincenzo Ferrer al simbolo di Almirante. Marcone è cognome squisitamente atriano, come Ferretti, Pallini, Pavone, Colleluori, Martella, diffuso nel centro storico, in periferia e in campagna.

Vincenzino aveva l’appalto delle esequie. In Atri i funerali si tenevano in tutte le chiese, perché erano officiate tutte. I canonici e i cittadini illustri andavano in Cattedrale, e la povera gente funerata a S. Maria doveva accontentarsi dell’ingresso dalla porta laterale. Questa discriminazione finì con il vento conciliare e le esequie furono riportate nelle parrocchie o nelle chiese che ne svolgevano temporaneamente le funzioni. Scomparvero però i figuranti delle confraternite (quasi ogni chiesa ne aveva una o due), perché con la fine di questi sodalizi, gli abiti (tunica, cordiglio, mozzetta e cappuccio) venivano indossati da atriani di ogni età, prevalentemente poveri o disabili, perché ricevevano in compenso doni in natura o in denaro. Per i ragazzi erano la mancia per l’acquisto delle sigarette.

Una volta Vincenzino partecipava ad un funerale a Pescara. Da Atri era giunto Ulino, un altro personaggio felliniano, il cui nome vero e proprio era Ugolino. Era un uomo con problemi motori e inconsciamente voleva far pagare la sua disabilità. Pertanto, al contrario di Vincenzino, buono e mite, era dispettoso. Mentre il protagonista delle esequie atriane portava la croce, Ulino gli fece uno sgambetto e la croce cadde per terra. Un’altra volta Ulino tirò una patata contro una pila di piatti durante una rappresentazione al Teatro Comunale, su consiglio di un amico. Quest’ultimo si servì della disabilità del compagno per non avere problemi con la giustizia, dato che aveva moglie e figlia a carico. L’episodio fu raccontato su “Comunità in cammino”, periodico della parrocchia di S. Gabriele dell’Addolorata, nell’intervista che fece il Prof. Antonio Pavone, artista e naturalista allo scultore e depositario di tradizioni atriane Peppino Antonelli, mentre infuriava il tormentone della “mucca pazza”.

Peppino conosceva tanti aneddoti su Vincenzino e come Muzio, lo fermò nell’argilla. I due volti atriani si fecero compagnia alla mostra “Atriarte”, presso il Centro Servizi Culturali di Atri e nel 1996 divennero bronzetti esposti prima nel ridotto del Teatro Comunale e poi trasferiti nel piano superiore del Palazzo ducale. Sicuramente sono i personaggi felliniani più significativi di Atri, Muzio con qualche espressione che non era il massimo del bon ton, Vincenzino, più silenzioso, capace di scherzare ma senza essere pesante, il cui sguardo era davvero inconfondibile.

Quando si sposò con Teresina, il matrimonio divenne l’evento del paese. Fu celebrato in Cattedrale, dove la benedizione degli sposi non avveniva all’altar maggiore come oggi, ma all’altare di S. Anna, in fondo alla navata destra, tra il presbiterio e l’ingresso laterale di S. Reparata. Tanta gente, con l’abbigliamento che trovava, andava anche per pochi minuti a vedere gli sposi, a curiosare l’acconciatura e il vestito dei festeggiati e dei parenti, a respirare l’atmosfera festosa. Ma quel giorno la curiosità fu grande e la Cattedrale sembrava il teatro dei grandi eventi. Poveri Vincenzino e Teresina dovettero uscire dalla porta che sbuca in Via dei musei, per evitare l’assalto!

Vincenzino racimolava qualche soldo recitando le “diasille”, storpiatura del “Dies irae” del B. Tommaso da Celano, biografo di S. Francesco, sepolto nella chiesa del Patriarca dell’Ordine Serafico a Tagliacozzo, la chiesa della provincia conventuale d’Abruzzo che più somiglia alla Basilica di Assisi. In Abruzzo esistevano i “diasillari”, specialmente nel Teramano e con l’industrializzazione ovviamente sono scomparsi. Ma tornarono all’attenzione negli anni ’80 quando l’antropologia della musica cominciò il suo lavoro nei luoghi più sperduti della regione. I “diasillari”, colleghi di Vincenzino, erano un po’ restii quando vedevano presentarsi questi giovani professori muniti di blocchetto e registratore con microfono, ma poi dopo un biscotto e un bicchier di vino si scioglievano e avveniva la trascrizione.

Nella chiesa di S. Francesco in Atri, Vincenzino avvolse il suo corpo, durante una gremita celebrazione, con la tenda che separa il presbiterio dal coro. Due tende furono confezionate da Gaetanina Modestini. La gente cominciò subito a fissare Vincenzino che era l’attrazione della sera. Ma subito uscì un frate che diede un piccolo ceffone a Vincenzino che, umilmente, se ne andò con la coda tra le gambe.

Abitava nel rione S. Domenico, allora molto popolato. Si può dire che buona parte del quartiere si è trasferito al “treno”, il cui nome proprio è Via Antonio Di Jorio. Nei pressi della sua casa c’era il negozio di alimentari di Aurelio Pavone e tante botteghe artigiane. Una volta disse “Cunvè a fa lu matte!”, quasi una traduzione atriane del proverbio “Fai il matto e non andare in guerra”.

Vincenzino se ne andò nel 1975 e una poesia in vernacolo gli è stata dedicata da Mons. Giuseppe Di Filippo, per più di mezzo secolo Rettore della chiesa di S. Giovanni, la sua parrocchia morale, la chiesa capoquarto dove è scritta silenziosamente la sua storia di uomo profondamente devoto che con la sua semplicità e il calore umano ha reso più bella Atri.

SANTINO VERNA.