Pubblicato Martedì, 06 Maggio 2014
Scritto da Santino Verna

PERSONAGGI ATRIANI

ANTONIO LETI,VIVACE E COMPITO, COLORO’ DI SIMPATIA LA NOSTRA CITTA’

 

Alla mostra del cav. Domenico Zincani, fotografo-artista (1907-1975) che si tenne presso il Palazzo De Albentiis- De Galitiis nell’estate 1990 prima dell’inaugurazione del Museo Archeologico, spiccava la foto in bianco e nero di un personaggio felliniano di Atri, Antonio Leti che colorò di simpatia la cittadina nella prima metà del XX secolo. Fu ritratto con lo sguardo simpatico ed entrò nella pubblicazione, presentata l’anno successivo al Teatro Comunale.

Trovatello, quando qualcuno lo faceva indignare diceva “Io sono Leti Antonio, figlio del governo”. Faceva diversi lavori manuali e abitava nel rione S. Giovanni (allora si diceva soltanto S. Domenico, anche se il Precursore era presente nella toponomastica del quartiere in un piccolo spiazzo conosciuto però con il riferimento a qualche residente). Era un quartiere molto popolare, in rivalità con quello di Capo d’Atri. I problemi non esistevano con Porta Macelli, perché area più piccola. Gli abitanti di S. Domenico erano molto vivaci e come gesto penitenziale compivano quasi di corsa la processione da S. Maria a S. Giovanni quando veniva rientrato il Calvario, la più pesante macchina processionale del Cristo deposto, tuttora conservato nella chiesa dei domenicani.

Antonio era vivace, ma sempre educato e compito. Aveva l’abitudine dei bicchieri di vino e ormai era diventata un’assuefazione. Bastava una piccola quantità di vino e subito diventava brillo. Usciva per Atri e scherzava in Piazza Mambelli con Giuseppe Brandimarte. Il vino gli faceva dire molte battute ma non era mai irriverente.

Per oltraggio al pubblico ufficiale veniva messo in carcere. La prigione era nei locali dell’antico convento agostiniano (come a Teramo) e la custodia era affidata alla famiglia Modestini, con i tre cantori Enrico, Mario e Arturo che vissero tra quelle antiche mura. Dalla chiesa di S. Agostino era possibile parlare con i carcerati. Ma l’oltraggio che poteva fare Antonio era molto innocuo, della serie “Maresciallo tu non comandi niente”. Oggi queste locuzioni fanno sorridere, dato che anche in ambito accademico qualcuno osa dare del tu al docente o chiamarlo per nome. E’ una lettura distorta del progresso che ci siamo portati con la rivoluzione dei costumi. Una volta nacque una discussione tra il Giudice e il Maresciallo circa i ripetuti arresti di Antonio. La conclusione fu che era facile prendere il pesce piccolo, l’etilista innocuo, il problema erano i pesci grandi.

Aveva il gratuito patrocinio dell’Avv. Santino Verna e si recava per chiedere aiuto nella casa di Vico Giardinetto. L’avvocato era sempre paziente con lui e lo esortava a non bere più. Una sera Antonio era particolarmente brillo e il carcere sarebbe stata l’ennesima punizione. Si recò barcollando nella casa dell’avvocato e si ebbe un paterno rimprovero. In un baleno scese le 13 scale, si spaventò tanto, ma non riusciva a cambiare vita.

Un’altra volta si recò in campagna e si stava parlando di patente di guida. Antonio, vistosamente brillo sul volto, diceva che si sentiva in difficoltà a fare quella prova, perché l’esaminatore quando vedeva Antonio Leti nelle cui vene scorreva sangue aristocratico, gli avrebbe detto “Ma tu devi prendere il brevetto da pilota!”. L’episodio è stato immortalato in una poesia in vernacolo di Antonino Anello, attento a cesellare i personaggi atriani.

E’ stato immortalato pure da un altro poeta dialettale, Mons. Giuseppe Di Filippo che ne ha ricordato alcuni aspetti della personalità, ricordando qualche aneddoto. Era il tempo in cui la politica era molto sentita, in tutti i paesi d’Italia. Gli anni della ricostruzione postbellica vedevano il vivace conflitto tra America e Russia e nel Bel Paese tra lo scudocrociato e la falce e il martello. Ma in paese finiva sempre a tarallucci e vino, perché per dirla con Paolo VI, “dietro le carte ci sono le anime”. Antonio parlava sempre di “Gasparo e Togliazzo”, intendendo Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, statisti di cui sentiamo la mancanza in questa società bombardata dai reality.

Era geloso della moglie, Giovina D’Andrea, di qualche anno più anziana di lui. E temeva che s’invaghisse di un compaesano che abitava non lontano dal carcere. Quando la consorte l’andava a trovare nel carcere, Antonio le raccomandava di non passare nella strada dove abitava quel buon artigiano perché avrebbe potuto farle delle avance.

Se ne andò nel 1974, cinque anni prima di un altro personaggio felliniano di Atri, Muzio Martella, suo vicino di casa, imago brevis di una Atri che non esiste più.

SANTINO VERNA