Pubblicato Martedì, 10 Settembre 2013
Scritto da Roberto Rosa


DOPO 15 ANNI UN FILM ITALIANO VINCE A VENEZIA

TRA LUCI E OMBRE…UN POSITIVO BILANCIO

Da Napoli a Roma, da Rosi a Rosi. Si potrebbe riassumere così, con un’iperbole quasi “marinettiana” questa edizione del festival di Venezia che ha visto (inaspettatamente) l’Italia protagonista. A dispetto dell’apparente immobilità di questa specie di “salto sul posto” che va da “Le mani sulla città” di Francesco Rosi (restaurato in occasione dei suoi cinquant’anni, ma nei contenuti ancora attualissimo) che ha inaugurato la Mostra, a “Sacro GRA” di Gianfranco Rosi (nessuna parentela fra i due) che si è aggiudicato il Leone D’Oro: a Venezia è passato davvero un mondo di cinema che è sembrato voler sfidare lo spettatore a riflettere sulle forme della narrazione cinematografica (“Stray dogs” di Tsai Ming-Liang,  “The Canyons” di Paul Schader, “Locke” di Steven Knight) oppure “torturarlo” obbligandolo alla visione di efferate violenze sessuali, spesso anche domestiche (“Miss Violence” di Alexandros Avranas, “The Police Officer’s Wife” di Philip Groning, “Child of god” di James Franco, “Moebius” di Kim Ki-Duk).

Ed allora, visto che di mondo si tratta, partiamo dai premi per cercare di ricostruire “la geografia” del cinema che esce da questo festival.

Iniziamo, quindi, dall’Italia che, a distanza di quindici anni da “Così Ridevano” di Gianni Amelio (anche quest’anno in concorso con “L’Intrepido”) si è aggiudicata il Leone D’Oro con un documentario: genere che fin’ora non aveva mai ottenuto un riconoscimento così prestigioso al Festival. “Sacro GRA” di Gianfranco Rosi certifica, prima di tutto, il suo talento personale; Rosi è, infatti, al suo terzo lungometraggio documentaristico e già con i precedenti lavori aveva ottenuto importanti riconoscimenti internazionali : “Below Sea Level” era stato premiato a Venezia nel 2008 nella sezione Orizzonti,  “El sicario - room 164” aveva ottenuto sempre a Venezia nel 2010 il riconoscimento della stampa straniera ed era stato premiato anche ai festival di Lisbona e Tel Aviv. Tuttavia, un premio così prestigioso certifica anche lo stato di salute del documentario in Italia che, con autori come Pietro Marcello (“La bocca del Lupo”) e Costanza Quatriglio (“L’Isola” e “Terramatta”), da anni ormai ottiene riconoscimenti in Italia e all’estero. Ma non basta, all’Italia è arrivata, forse ancora più sorprendentemente, la Coppa Volpi alla migliore interpretazione femminile a Elena Cotta (battendo la favoritissima Judi Dench per “Philomena” di Frears) per l’interessante “Via Castellana Bandiera”: primo lavoro cinematografico di Emma Dante, già apprezzata regista ed autrice teatrale che racconta la storia di due donne che, nelle rispettive auto, s’incontrano in una stradina stretta, entrambe decise a non cedere il passo, bloccando la strada, il quartiere, la città (… il Paese?). Nella sezione “Giornate degli Autori” è stato molto apprezzato anche “La mia classe” di Daniele Gaglianone (con Valerio Mastandrea come unico attore professionista, gli altri sono veri extracomunitari che mettono in scena se stessi): lavoro ancora a cavallo fra documentario e finzione che racconta quello che (realmente?) avviene durante le riprese di un film su una classe di extracomunitari che vogliono imparare l’italiano nel quale ben presto la finzione cede il passo alla realtà degli eventi. Ancora un premio per l’Italia è arrivato, infine, dalla sezione “Orizzonti”, con il delicato e commovente “Still Life” di Umberto Pasolini.

Anche l’Europa ha ricevuto buoni riconoscimenti, soprattutto con le sue storie più dure e disturbanti incentrate sulla violenza familiare. Sia il greco “Miss Violence” di Alexandros Avranas (vincitore sia del Leone D’Argento per la miglior regia che della Coppa Volpi per il migliore interpretazione maschile), che il tedesco “The Police Officer’s Wife” di Philip Groning (che si è aggiudicato il Premio Speciale della Giuria) affrontano, seppur in maniera diversa, il dramma della violenza domestica. A “Philomena” dell’inglese Stephen Frears (spesso apprezzato ma raramente premiato nei festival) è andato solo il Premio per la Miglior Sceneggiatura. Sempre dall’Inghilterra, poi, è arrivato uno dei lavori più convincenti presentati (fuori concorso) al Festival: “Locke” di Steven Knight che rappresenta una vera propria sfida al cinema. Dal punto di vista realizzativo, infatti, il film persegue la sincronia spazio-temporale fra racconto e visione: l’ora e mezza di durata della pellicola corrisponde ad un’ora e mezza nella vita del protagonista, ma a rendere la sfida ancora più estrema c’è il fatto che quest’ora e mezza il protagonista la passa in macchina al telefono alternativamente con la moglie, il datore di lavoro e la donna con la quale ha avuto una relazione fugace e che sta dando alla luce suo figlio. La situazione claustrofobica e la brillante interpretazione di Tom Hardy riescono a rendere tangibile la forza emotiva che spinge un uomo a sacrificare un’intera vita di scelte razionali e piccole conquiste per tener fede alle sue responsabilità di padre e fare, una volta tanto, la cosa giusta.

Non ha pienamente convinto, invece, l’atteso nuovo film di Terry GilliamThe Zero Theorem”, che torna (a quasi trent’anni dal sublime “Brazil”) ad immaginare un futuro dispotico che annienta le individualità dei cittadini. A riscattare un film non pienamente riuscito non è bastato neanche il sempre strepitoso (e qui irriconoscibile) Christopher Waltz, che quest’anno ha vinto l’Oscar come miglior attore non protagonista con “Django Unchained”.

Il cinema asiatico, invece, ha un po’ abdicato a quel ruolo di avanguardia che  si era ritagliato negli ultimi anni e non è un caso, forse, che questo è stato l’anno degli addii. Tsai Ming-Liang, sempre più perso nel suo cinema personale e “immobile”, con il suo “Stray Dogs” si è aggiudicato il Gran Premio della Giuria ma ha anche annunciato che questo potrebbe essere il suo ultimo lungometraggio, proprio per la difficoltà, per un cinema come il suo, di trovare risorse. Anche Hayao Miyazaki (già vincitore di un Oscar nel 2003 per La Città Incantata e del Leone D’Oro alla carriera nel 2005) che era in concorso con “The Wind Rises”: meravigliosa parabola sulla lotta fra le aspirazioni ideali e l’ineludibilità degli obblighi reali, ha annunciato l’addio alla regia pur non avendo problemi né di risorse né di libertà creativa, semplicemente perché lo considera un lavoro troppo faticoso per i suoi 72 anni. A completare la pattuglia asiatica c’era Kim Ki-Duk (vincitore a Venezia proprio l’anno scorso) che con “Moebius” (uscito in sala a ridosso della presentazione al festival, proprio come avvenne l’anno scorso con il vittorioso “Pietà”) non si allontana dalle sue tematiche abituali: violenza, abuso e prostrazione morale per declinare in chiave grottesca il complicato sistema di potere che si nasconde all’interno della famiglia.

La rappresentativa americana è rimasta, invece, sostanzialmente a bocca asciutta, dovendosi accontentare del solo Premio Mastroianni per il giovane attore: Tye Sheridan per “Joe” di David Gordon Green. Questo non significa, però, che non ci siano stati film interessanti provenienti da questo continente, a cominciare dal film d’apertura (fuori concorso) della mostra: “Gravity”di Alfonso Cuaron che (come spesso capita al cinema statunitense) riesce a far convivere splendidamente le esigenze commerciali (spettacolarità della messa in scena e cast di richiamo: George Clooney e Sandra Bullock) con le aspirazioni autoriali di un cinema (paradossalmente?) del reale. Oppure, le riflessioni sul cinema “alla fine del cinema” di “The Canyons” di Paul Schader, ed anche la sexy e spietata aliena Scarlett Johansson di “Under the skin” di Jonathan Glazer.

Proprio dal continente americano (dal Canada per l’esattezza) arriva la conferma del talento del giovane Xavier Dolan (24 anni e un percorso “autoriale” già riconoscibile) che con “Tom à la ferme”, suo quarto lungometraggio,  mette una seria ipoteca sui Leoni del futuro.

A conclusione di questo resoconto sul settantesimo Festival di Venezia non resta che chiedersi: quanto di questo cinema arriverà effettivamente in sala? Quanto potrà essere realmente visto dallo spettatore italiano che, come noi, vive in provincia? A basarsi sui precedenti degli anni passati, purtroppo, non c’è da essere ottimisti.

 ROBERTO ROSA