Pubblicato Sabato, 06 Aprile 2019
Scritto da Alberto Sporys

VIAGGIO FOTOGRAFICO SUL BELVEDERE NORD DI ATRI

NO, NON E' UN BEL...VEDERE!

LA AMICA MACCHINA DEL TEMPO RESTITUISCE...LA MEMORIA DEL PASSATO

Sono nato in via Picena, rione Capo d’Atri nel giugno del 1947, ci tengo a ricordare, che il dott. Nicola Bindi medico di famiglia assistette mia madre Santina durante il parto, titolare del Caffè Italia in c.so E. Adriano fino al 1975, ereditato dagli zii Francesco e Anna Tini.

Si unì in matrimonio nel 1946 con mio padre Jerzy (per gli atriani Giorgio lù pulacche), militare polacco di stanza ad Atri durante la seconda guerra mondiale, rimasto in Atri fino alla sua dipartita nel 1983.

 Pittore e scultore, tra le sue innumerevoli opere ha voluto immortalare con le sue sculture, alcuni personaggi della vita atriana il  dott. Nicola Bindi  (1876 – 1967), primo sindaco in Atri nel dopo guerra dal 23 marzo 1946 al 1948, il dott. Giuseppe Verdecchia, pittore veterinario nel comune di Atri e l’amico indimenticabile il pittore impressionista polacco Wodzimierz Zakrzewski (San Pietroburgo 1916 - Varsavia 1992). È considerato uno dei più grandi rappresentanti del realismo socialista nella pittura polacca e nell'arte grafica.

La mia infanzia l’ho passata, giocando con gli amici di quartiere, tra via Picena e quella parallela a essa, a nord di Atri, la strada de Capu d’Atri, oggi circonvallazione Nord.

La strada era larga circa cinque metri, costeggiata da siepi di sambuco, rovi di more e biancospino, dove le donne stendevano con delicatezza ad asciugare la biancheria, dopo averla lavata nei tini di legno, con i pezzi di sapone fatto in casa, presso la fontanina sotto la facciata della chiesa di S. Rita, poi spostata nell’adiacente giardinetto di fronte la chiesa.

 Nella scarpata sottostante la strada cresceva alberi: nocepuzze, querce, prugne selvatiche e ciliegi.

 A delimitare e fare da confine c’erano vari orticelli, dove molti atriani che abitavano nei vicoli e reghe adiacenti, coltivavano gli ortaggi di stagione, senza uso di pesticidi e usando solo come concime gli escrementi di polli, conigli e maiali che erano stipati nelle antiche tombe rupestri etrusche ormai vuotate da svariati anni, di scheletri e tesori trafugati, alcuni dei quali esposti al British Museum di Londra, che allevavano sul posto.

Ho sbirciato un po’ nel passato e ho trovato che, per le lavandaie del paese era consuetudine di buon mattino andare alle fonti, poste nell’immediata periferia: la Vricciola, nel basso versante nord del colle della Giustizia la ‘Ngellarije, sul versante sud del colle su cui sorge Atri, in prossimità di Porta Macelli, Fontacciano sul versante nord di colle Maralto a circa 200 metri da Porta S. Domenico.

Avevano così la disponibilità dei lavatoi in mattoni o pietra delle fontane, per lavare subito, la biancheria: lenzuola, asciugamani, tovaglie, li sparene (canovacci), fazzoletti e altro, con un pezzo di sapone fatto con gli avanzi di grasso e scarto del maiale compresi salumi e strutto andati a male e olio di oliva irrancidito, il tutto fatto bollire all’interno de la callare di rame con la soda caustica, e stenderla poi sul prato antistante alla fonte ad asciugare al sole.

Le ragazze all’approssimarsi delle nozze, prima di preparare il cassone con la dote, conciavano con la liscivia, cenere vegetale fatta bollire con acqua, filtrata e versata bollente sopra li crulle e le lenzuola di lino grezzo color grigio o panna tessuti al telaio.

 Essi erano lasciati a bagno dalle due alle dodici ore e risciacquati più volte sotto l’acqua corrente della fonte.

 Subito dopo quest’operazione erano stesi sul prato, ad asciugare insieme a parte del corredo, per fruire oltre del calore del sole, anche della proprietà sbiancante dell’ossigeno emanata dall’erba, quando tutto era asciutto, si raccoglievano, si piegava, si appoggiava dentro lu panare e tra una chiacchiera e un pettegolezzo si ritornava a casa.

Le massaie andavano a prendere l’acqua con la conca di rame, per l’approvvigionamento giornaliero da usare per uso domestico, che appoggiavano sopra la spare, arrotolata a mo’ di ciambella sulla testa, che consentiva di tenerla in equilibrio.

Questo fino al 1923, quando finalmente in Atri arrivò la condotta dell’acqua, la sorgente del Vitello d’oro a Farindola gestita dall’acquedotto del Tavo.  

 Prima che in Atri fosse costruita la rete fognaria, la mattina di buon’ora, chi non aveva il bagno in casa, andava a vuotare i loro vasi da notte, pitale o in atriano “lu renale”, custodito durante la notte nella parte bassa del comodino, sotto la scarpata dietro al muraglione di capo d’Atri o nel vespasiano posto sotto al muro di cinta del palazzo Torinese confinante con quello del convento le Clarisse di S. Chiara.

Da sotto il monastero continuando verso il quarto di S. Domenico, chiesa di S. Giovanni Battista, la strada era denominata dagli atriani, fino all’altezza della fabbrica della liquirizia De Rosa “Li Campanille”. Il manto stradale era costituito da breccia, asfaltata poi negli anni ’60.

Fine anni ’80, grazie all’intuizione lungimirante dell’allora Presidente della Comunità Montana Zona “N” atriano doc Domenico Martella, con il finanziamento della legge 64/86 fu realizzata l’opera di costruzione del Belvedere Nord Atri, terminata e inaugurata nel 1991.

Da allora molti turisti, visitano Atri e i suoi monumenti, alla fine di questo percorso, vengono ad affacciarsi alla balaustra del belvedere, per osservare il panorama che spazia dal mare Adriatico, passando per la vallata del fiume Vomano fino ad arrivare con lo sguardo ai monti Sibillini preceduta dalla vista di Civitella del Tronto.

Continuando a volgere lo sguardo da nord verso ovest, troviamo i monti Gemelli sopra Campli, il monte Gorzano, i monti della Laga, arrivando a chiudere l’anfiteatro naturale con il massiccio del Gran Sasso d’ItaliaLa muntagne cchiù grosse” o con vista al tramonto Il Gigante che dorme, spostandosi poi verso la Rocca di Capo d’Atri, arrivare fino alla Maiella.

L’umanista, latinista, linguista, saggista e poeta, il professore sacerdote don LUIGI ILLUMINATI, nato in Atri nel 1881 canonico della cattedrale di Atri, anche lui abitava in via Picena, sul frontale della sua abitazione incise in latino la scritta: HIC MEA LIBERTAS FLORET GAUDETQUE SERENA AC RIDET VULGI GARRULA VERBA RUDIS. MCMXXXIII, ma sul frontone che guarda la vallata del Vomano, volle in tedesco il verso del Faust: «VOR AUGEN IST MEIN REICH UNENDLICH» (Ho davanti ai miei occhi il mio regno).

 Da diversi anni esco tutte le mattine per farmi la passeggiata lungo il belvedere nord di Atri, tempo bello o brutto che sia, mi sono accorto che da anni tutta la balaustra o balaustrata, quasi giornalmente subisce danni, dovuta a cattiva manutenzione ordinaria e straordinaria dal 1991, se fosse ancora in vita Domenico Martella come amministratore del comune di Atri, questo non sarebbe successo.

Essa si snoda lungo via S. Domenico da dietro l’ex fabbrica della liquirizia Menozzi De Rosa, continuando per via delle Clarisse, fino al giardinetto di fronte la chiesa di S. Spirito, ma per gli atriani il Santuario di S. Rita, da tre anni chiusa al culto causa cedimento del tetto dietro la sacrestia, sala del Tesoro e infiltrazioni d’acqua in tutto il tetto della chiesa per colpa la nevicata del 2015 e abbandonata a se stessa.

 Oggi grazie all’interessamento del nuovo parroco don Matteo Baiocco D’Angelo della parrocchia di S. Nicola, forse per la prossima festa di S. Rita il 22 maggio 2019 essa sarà riaperta in parte al culto dei fedeli, grazie anche a una sottoscrizione fatta dai cittadini di Atri.

Tornando alla balaustra, essa è composta di circa 1813 balaustri o colonnette divisi tra loro da 278 piedistalli di balaustra, usati soprattutto per definire il blocco rettangolare che separa serie di balaustri in una balaustrata, che poggiano su un basamento e sono sormontati da un architrave profilato, detta cimasa, di tutto quello descritto il 10% dovrebbe essere sostituito.

In un primo tempo come dicevano in molti, per primi gli amministratori locali, i danni erano procurati da vandali, che la notte si dilettano durante i loro raid a rompere i balaustri.

Una mattina controllando di persona uno di essi, essendo spaccato all’altezza dell’architrave, solo toccandolo, sono rimasto con parte di esso in mano.

Guardando bene nei dettagli mi accorgevo che, il perno di ferro di circa quindici centimetri, che fuoriusciva dalla colonnetta e incastonato nel basamento superiore (corrimano) e quello in basso era arrugginito e marcio, pertanto sfregandoli solo con le dita, si sbriciolavano, colonnette rotte e attaccate fra loro con dello spago, altre imbrigliate con vecchie tavole.

Come mai succede questo, se i balaustri sono incastonati nei due basamenti?

Da qualche anno sono state installate delle telecamere di sorveglianza solo sul lato ovest del belvedere che non coprono tutto il percorso, ma poi funzionano?

Le sculture in pietra di Manoppello cominciano anch’esse ad avere dei problemi, essendo una pietra porosa assorbe acqua, che con l’arrivo delle ghiacciate tenta di rompersi e a diventare nere, senza la dovuta manutenzione e le panchine in ghisa sono rotte, cosa si aspetta a rimuoverle e sostituirle?

Non parliamo poi del basolato, che per quasi tutta la lunghezza del belvedere ha una spaccatura continua, da dove cominciano a fuori uscire erba e fiorellini, inoltre si sta spaccando e sollevando a causa delle radici dei grossi ippocastani e tigli, piantumati lungo tutto il marciapiede.

Una domanda mi sorge spontanea, questa spaccatura è dovuta a mancanza di malta che collega il basolato al sottofondo in calcestruzzo o a un cedimento strutturale di tutta la balaustra?  In alcuni punti da oltre due anni, vari basamenti non sono più collegati tra loro, pertanto c’è un’oscillazione che rischia di far collassare parte di essa.  Solo dall’estate 2018, per l’esattezza dopo la fiera Boaria del 15 agosto, parte della balaustra è stata transennata con del nastro bianco e rosso, che è strappato quasi quotidianamente.

Sporgendosi dalla balaustra si possono scorgere tra la vegetazione vasi di plastica, buste di spazzatura, bidoni di ferro arrugginito che fungono da balaustra, auto parcheggiate su strisce pedonali con scivoli per portatori di handicap o parcheggiate in spazi riservati, con strisce in giallo senza apporre il talloncino ASL e non multate, chi ne ha più ne metta.

Per finire questo viaggio d’immagini del Belvedere di ATRI, che ripeto, non è un bel …vedere, perché tra animali morti lasciati marcire in bella vista, tra rovi e piante ad alto fusto, non curate con la dovuta potatura, quando sono in piena vegetazione, non si vede più il panorama, tanto invidiato e osannato dai tanti turisti che visitano durante tutto l’anno.

 Anche questa è ATRI Civitas Vetusta.

ALBERTO SPORYS