Pubblicato Martedì, 06 Agosto 2013
Scritto da Eide Spedicato Iengo


UNA MOSTRA FOTOGRAFICA CHE CI CONSEGNA UN PASSATO DA NON DIMENTICARE


 I ricordi nel cassetto…

 

 

 

 

In tempi come gli attuali, gelatinosi, frettolosi, eterodiretti, smemorati che moltiplicano le prassi seriali presentiste, ogni proposta -volta a promuovere il linguaggio costruttivo della memoria- è meritevole di riconoscenza e di attenzione, qualunque siano i modi che segue e i percorsi che suggerisce. In primo luogo, perché il ricordare, in tempi come gli odierni, nei quali l’universalismo espansivo e missionario della modernizzazione ha serializzato e livellato molti perimetri sociali, è un modo per contrastare una malattia molto diffusa, l’ucronia, ovvero la tendenza a dilatare il presente in una smemorata, inconsapevole apatia. Poi, perché il lavoro mnestico aiuta ad attivare il pensiero relazionale e dialogico, e a rivitalizzare volti, corpi e ambienti che, quantunque scomparsi, continuano a vivere perché permangono nella memoria di coloro che ri-contano il passato di cui sono stati parte. Quindi, perché il ricordo invita a riguardare i luoghi da cui si proviene, nel duplice senso di “aver riguardo” e di tornare a “guardarli”. Infine, perché aver cura del sentimento del tempo significa recuperare la cifra di un’identità, ricostruire palcoscenici collettivi, dare riconoscibilità a contesti remoti di significato, risvegliare la pietas nei confronti di ciò che non c’è più.

In questo percorso di valorizzazione del passato come esperienza da tesaurizzare, si inscrive questa ricca raccolta di fotografie, scattate ad Atri nel decennio 1935-1945 con qualche escursione negli anni Cinquanta.  Diciamo subito che queste immagini non sono il frutto di fotografi improvvisati. Sono, all’opposto, il prodotto di mani e sguardi esperti, che hanno fissato l’obiettivo su soggetti  -in prevalenza madri, ragazze e bambini-  che affidavano al lampo del magnesio volti e corpi sullo sfondo di fondali fitti di arredi tanto ridondanti e lussuosi quanto improbabili nel vissuto del loro quotidiano. L’intento calligrafico di proporre un’immagine di sé levigata e accurata obbediva, infatti, all’intento sia di fissare -per conservare- momenti importanti della propria vita e della propria famiglia (la prima comunione, il matrimonio), sia di veicolare messaggi rassicuranti che fossero di conforto, soprattutto a chi era lontano, perché emigrato o in guerra. E’ presumibile, infatti, che queste fotografie “professionali” servissero, appunto, ad allentare il peso del dramma dell’emigrazione o a chiudere una parentesi sulla guerra, invitando -colui al quale erano destinate-  a non dimenticare chi era rimasto al paese in attesa.

Questo diario figurato, nel quale le omissioni sono eloquenti non meno delle inclusioni, sebbene non allacci gli interni agli esterni, permette tuttavia di cucire, in uno spazio-tempo, frammenti di realtà altrimenti isolati in uno spazio rettangolare,  richiamando in vita una fetta di passato attraverso la rievocazione di una folla di sentimenti privati che si confondono con i cambiamenti storici e sociali.

 Se per un verso, infatti, queste fotografie alludono ad orizzonti domestici fitti di bambini, a società familiari imbozzolanti e nutritive, ad ambienti dominati da comportamenti routinari, segnati dal libero commercio dei rapporti faccia a faccia e alimentati dal rumore della vita comunitaria; per un altro verso, e contemporaneamente, suggeriscono una realtà dalla quale affiora l’atmosfera piccolo-borghese dell’Italia fascista, quando la EIARtrasmetteva le canzoni di Alberto Rabagliati, la Balillaera uno dei sogni cittadini, la villeggiatura un lusso da ricchi, il cinema uno spazio che faceva sognare. Rinviano, pertanto, agli anni nei quali l’autarchia obbligava le signore e le signorine a calzare scarpe con la suola di sughero che, in qualche piede si accompagnavano a calze velate, ma più spesso a calzette di lana o di cotone; e riportano alla memoria il tempo in cui i cappotti si rivoltavano;  gli abiti, se scoloriti, si tingevano in casa per passare di padre in figlio e di madre in figlia, e il più piccolo di casa era destinato ad indossare tutto ciò che veniva smesso dai suoi fratelli più grandi. Fissano il tempo in cui ci si alimentava con poco e si era tutti frugivori;  si beveva il karkadè e il surrogato d’orzo e di cicoria sostituiva il caffè; i panni si lavavano sull’asse di legno e i piatti con la soda; e le donne e le ragazze disponevano di un guardaroba modestissimo, che confezionavano da sé con l’aiuto della Singer (una nota marca di macchina da cucire, n.d.r.). Ripropongono gli anni in cui si partoriva in casa; alla gente si dava del “voi”; la gioventù era inquadrata nelle organizzazioni del regime;  alle coppie si offrivano premi di nuzialità e di prolificità; molte donne svolgevano lavori maschili; l’infanzia era un tempo brevissimo; i banchi di scuola erano di legno e i bambini, sebbene  all’apparenza tutti uguali nell’obbligatorio grembiule nero, vivevano quel tempo in modi assai diversi: per alcuni, il ruolo di scolaro non esentava da altri impegni e da altri processi formativi più pragmatici e concreti come aiutare in famiglia o in campagna.

 Ricostruiscono anche il contesto in cui l’industria iconica dava vita ad immagini in cui i soggetti erano tutti giovani, forti, attraenti, muscolosi. Le ragazze e le giovani donne di queste fotografie, dalle labbra disegnate col rossetto, i capelli vaporosi, le sopracciglia depilate, erano sì graziose, ma assai lontane dalle rappresentazioni dei manifesti dell’epoca. Non si avvicinavano alle categorie snobistiche e letterarie dei manifesti di Dudovich, non assomigliavano alle bellone dalle forme provocanti di Boccasile, né alle figure dannunziane di Metlicoviz, tutto profumo e volpi azzurre. Erano pure distanti dalle silhouette allungate, nordicizzate  a immagine “della principessa di Piemonte, che recita tutte le parti, della contadina da parata come della patria che chiede sacrifici o delle assicurazioni che incitano alle polizze” (G. Bocca, “Il manifesto pubblicitario”, in L’economia italiana tra le due guerre, IPSOA, Milano, 1984, p. 353).

Tuttavia, ciò che queste foto non dicono è se anche queste donne e queste ragazze abbiano superato, attraverso l’emigrazione dei loro cari e poi il tempo della guerra, lo spazio della casa e della maternità e allontanato da sé il cliché di vestali dello spazio domestico, né se hanno anche loro partecipato a quella gara di solidarietà che vide tante di loro impegnate a tirare fuori dalle cassapanche e dagli armadi giacche, camicie, pantaloni per i soldati sbandati dopo l’8 settembre del 1943. Non sappiamo, perché queste immagini non possono dircelo, se quegli anni duri le obbligarono a scelte forti, ad assumere ruoli non previsti, a percorrere per sé tracciati più personalizzati. E’ verosimile, tuttavia, che ciò sia accaduto.

Questa biografia virtuale non racconta, dunque, una “natura morta”; racconta, all’opposto, un sistema organizzato di segni parlanti  e di oggetti-simbolo, che diventano cronaca e storia di un piccolo-grande mondo, che possiede la ricchezza di quelle esperienze e di quelle emozioni che fanno di ogni realtà, anche della più locale e circoscritta, una realtà universale. Contiene, pertanto, un invito e un’allerta. Suggerisce, per un verso, di guardarsi da quel triste personaggio dell’oggi momentaneista e senza stile, immemore e inceppato,  che si modula sul presente e non sa e non vuole sapere da dove viene; e, per un altro verso, invita a recuperare il significato del passato, non per evocare gelatinosi e retorici sentimentalismi, ma per riparare dalla corruzione del tempo i valori della propria cultura. Una cultura che può essere ricostruita anche partendo da un minuto frammento, come le foto ingiallite di questa bella mostra, che possono riattualizzare un panorama di ambienti, sensibilità, vagabondaggi emotivi, suggerendo che non c’è solo il tempo-freccia che corre senza sosta in avanti, ma anche il tempo che gira in tondo e riconnette all’indietro nell’area identificativa di ciò che gli altri sono stati perché noi potessimo essere.

Eide Spedicato Iengo
Docente di Sociologia generale
Università "G.D'Annunzio" di Chieti-Pescara