Pubblicato Domenica, 29 Aprile 2012
Scritto da Andrea Loffredo

dott.Andrea Loffredo sul filo della memoria

Emergenze e vite salvate

 La sera quando vai a letto, prima che arrivi il sonno, ti passano davanti tutti i fatti più salienti della giornata e poi piano piano si aprono i famosi cassettini della memoria ed affiorano i vecchi ricordi di episodi che ti sono accaduti in passato; molti della tua vita privata e molti della tua vita lavorativa. (quarant’anni)

Come ogni racconto che si rispetti ci sono fatti che fanno sorridere e fatti molto seri.

Iniziamo da quello così detto “faceto”, e se vogliamo, di grande attualità.

Una mattina, se non ricordo male era il 1961, si presentò in reparto un signore di circa quarant’anni, veniva da Pescara, molto educato, gentile, quasi si vergognava di dare disturbo, con modi effeminati e con voce bassa chiese del Primario. A Napoli l’avrebbero subito etichettato “nu femminiello”.

Dopo una decina di minuti fui chiamato perchè era necessaria una leggera anestesia generale, mi spegò il chirurgo che il paziente aveva un corpo estraneo nel retto che andava asportato.

Addormentatolo, con un rettoscopio si dilatò l’ano e guardando all’interno, in fondo all’apparecchio, si vide un certo luccichio color oro. Dopo aver fatto un piccolo clisterino di vasellina con una pinza ad anello ( piccolo forcipe) si tentò di far presa su ciò che luccicava. Dopo vari tentativi fu agganciato e con estrema delicatezza, piani piano, venne estratto un bulbo con una lampadina oblunga di 60 watt.

La lampadina fu restituita al paziente dopo averla lavata, avendone ovviamente il diritto di proprietà.

Aveva probabilmente messo in pratica il detto: “Signore dacci i lumi” !!

No comment.

 

Alcuni ricordi sono indimenticabili, non sono mai stati cancellati ed uno di essi, in particolare, per la sua complessità e risoluzione è sempre presente nella mia memoria. Accadeva nel 1962.

Una mattina di Domenica, come da nostra vecchia abitudine, dopo aver fatto la visita nel reparto, si ascoltava la messa nel corridoio del reparto; terminata la stessa, ci si recava nella cucinetta per prendere il caffè e preparare il lavoro operatorio della settimana successiva.

Giunse, trafelato, un infermiere. Ci riferì che nella medicheria del reparto (all’epoca non esisteva il pronto soccorso come entità autonoma) avevano portato un paziente che, mentre arava, si era rovesciato con il trattore e l’erpice lo aveva colpito in più parti del corpo. Poteva avere trent’anni, pallido e sudaticcio, presentava una ferita penetrante del torace destro, da cui, ad ogni atto respiratorio, usciva un getto di sangue che quasi arrivava al soffitto, ed una ferita penetrante dell’addome medio.

Fu portato in sala operatoria e non essendoci ancora un centro trasfusionale, fui costretto a trovare dei donatori occasionali, ma data l’urgenza ed eravamo pure di Domenica, la ricerca fallì. A quel punto mi si avvicinò il Prof. Fanini (il “Grande Capo” come lo chiamavo e lo chiamo ancora oggi), che é donatore universale. Gli prelevai 300 cc. di sangue e il Professore andò a lavarsi per l’intervento. Salassai anche una infermiera della sala operatoria (Antonietta S.) che si era volontariamente offerta. Dovendo operare sul polmone (primo intervento che si effettuava in Atri) ed oltre tutto in quelle condizioni, adoperai per intubare il paziente un tubo particolare a doppia via (Carlens ) che a seconda della necessità permette di escludere un polmone e dare all’operatore il vantaggio di non essere disturbato dall’atto respiratorio stesso.

Intanto il polmone si era collassato per il pneumatorace provocato dalle ferite (due del polmone) e si era ridotto anche il sanguinamento, sia per lo shock, sia per il pneumatorace compressivo.

Trovata la pedita, si era lesa, per sua fortuna, la vena polmonare e non l’arteria vicina, di un centimetro, nel qual caso non sarebbe giunto in Ospedale.

Pregai il Prof. di tamponare per alcuni minuti la vena e darmi la possibilità di infondere a tutta velocità il sangue prelevato.

Suturata la vena e le lesioni polmonari, riespanso il polmone, fatte le prove di tenuta, il torace fu drenato e chiuso.

Passammo all’addome, l’erpice aveva lacerato due anse intestinali, anche qui grande fortuna, non vi erano danni aglo organi interni, resecate le anse e lavato con antisettici, abbondantemente, il cavo addominale per evitare una peritonite stercoracea, per la cacca uscita dalle lesioni, drenaggi e chiusura.

Si erano fatte le 16,30.

Nel girare la testa del paziente, sul lato sinistro in zona temporo-parieto-frontale alta apparve una piccola ferita sporca di una sostanza bianca. Era sostanza cerebrale e la ferita penetrava per un centimetro. A quel tempo non esistevano: l’angiografia cerebrale,la T.A.C. o la recente P.E.T.. Ci guardammo ed in coro esclamammo: “fatica sprecata”. Furono messi due punti e svegliato il paziente fu portato a letto in una cameretta. Il giorno dopo, passando in visita, lo trovammo tranquillo e sereno seduto sul letto, visitato non aveva alcun deficit nè motorio nè sensitivo. L’erpice aveva colpito in una zona cerebrale muta.

A questo punto è obbligatorio fare alcune osservazioni.

Trovare tutta l’equipe chirurgica di Domenica, il Primario che ti opera e ti dona il suo sangue (esperto anche in chirurgia polmonare), l’erpice che colpisce la vena e non l’arteria, le anse intestinali e non il fegato ol a milza, il cranio in zona muta cerebrale. Si può considerare il tutto o una fortuna sfacciata o, data l’età, il Padre Eterno aveva deciso di non emettere le dimissioni eterne e definitive. (Non esisteva il cartellino, il festivo e lo straordinario)

 Dott. Andrea Loffredo