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- Pubblicato Venerdì, 08 Marzo 2013

ATRI E LE SUE TRADIZIONI
LA PROCESSIONE DEL CRISTO MORTO: LA SCENOGRAFICA RELIGIOSITA' DEL PASSATO
C’era una volta la processione del Cristo morto…
In circa settant’anni, Atri ha dimenticato una delle sue tradizioni più affascinanti
Si è ormai entrati in tempo di Quaresima, il periodo di penitenza, di astinenza e di digiuno che terminerà con la Settimana Santa, la quale a sua volta vede i suoi momenti più intensi e tragici nelle giornate del Giovedì, Venerdì e Sabato Santo, per culminare nell’esplosione di gioia della Domenica di Pasqua.
In Italia oltre 300 riti vengono messi in scena nelle strade e nelle piazze, espressioni di quella religiosità fortemente popolare che ha sempre caratterizzato il bel Paese. Se vogliamo mantenerci in un ambito strettamente abruzzese, vengono subito in mente alcune delle più suggestive e conosciute sacre rappresentazioni, come la Processione del Venerdì santo a Chieti e la Madonna che Scappa a Sulmona. Il Venerdì santo, in particolare, il giorno in cui si consuma il sacrificio di Cristo per la salvezza dell’intera umanità, è quello che più smuove le coscienze dei fedeli e questo spiega come mai ogni parrocchia, ogni borgo, ogni città organizzi una sua processione del Cristo morto (invece, nel giorno di Pasqua, non tutte le località possiedono usanze particolari, come nel caso di Chieti).
Anche ad Atri si svolge la processione del Venerdì santo. Bisogna premettere che anticamente la Settimana Santa di Atri era costellata da altri riti religiosi, generalmente curati dalle varie confraternite cittadine, le quali erano almeno sette (San Nicola dei Sarti nel Duomo, l’Immacolata a Santa Reparata, i Cinturati a Sant’Agostino, le Stimmate a San Francesco, il Suffragio a Santo Spirito, il Santo Nome di Gesù e il Rosario a San Giovanni Battista). Oggi le confraternite sono scomparse tutte e la processione del Cristo morto è ancora in auge sia per la sua importanza, sia grazie all’organizzazione della parrocchia di Santa Maria e delle ACLI.
Gli atriani non si ingannino, tuttavia: quella che è stata loro consegnata è una processione diversa dall’originale, un rifacimento che ha portato alla perdita di quelli che erano i suoi aspetti caratterizzanti e che è stato una di quelle tante gocce che, una volta riempitolo, hanno fatto traboccare il vaso e portato al totale annullamento delle congreghe laiche locali.
Occorre innanzitutto fare un piccolo excursus storico sulla processione.
Atri (ovviamente si parla del solo centro storico) è divisa nei quartieri di Santa Maria, San Giovanni, San Nicola e Santa Croce (conosciuto volgarmente come Capo d’Atri). Non diversamente da quanto accadeva in altre città italiane, nel Medioevo questi quattro quarti svilupparono una rivalità reciproca, che li portò ad avere usi e costumi talvolta differenti tra loro: fu così che ogni rione prese ad organizzare una propria processione del Cristo morto. Praticamente, il Venerdì Santo ad Atri sfilavano ben quattro processioni, presumibilmente alla stessa ora; la più importante doveva essere quella del quartiere di Santa Maria, in quanto usciva dal Duomo e vedeva la presenza del Capitolo dei Canonici e del Vescovo.
Nel XVIII secolo i sacri cortei furono unificati, in modo da poter coinvolgere tutta la città ed evitare disordini e risse che potevano nascere nel corso di ben quattro processioni serali, in un’epoca nella quale la sera non era certo il momento della movida (è probabile che i cortei percorressero solo le strade dei rispettivi quarti, ma poteva accadere che s’incrociassero e i fedeli iniziassero zuffe e litigi spinti da “orgoglio di quartiere”). L’unificazione fu effettuata dalle autorità diocesane cercando di accontentare un po’ tutti: a Capo d’Atri fu affidato il Cristo morto, a San Nicola l’Addolorata, a San Giovanni il simulacro della deposizione dalla Croce, cioè l’attuale Calvario, un tempo costituito da varie statue (di cui una identificabile forse con la Maddalena del Museo Capitolare, proveniente proprio dalla chiesa di San Domenico) e poi assai rimpicciolito per permettere il passaggio nelle strade.Il quarto di Santa Maria non aveva nessuna statua, ma era rappresentato dai Canonici che aprivano il corteo con la Croce di Passione; d'altronde, la messa antecedente la processione si svolgeva nel Duomo.
Il corteo aveva il seguente svolgimento. Nel tardo pomeriggio, dalla chiesa di Santo Spirito, accompagnata dalla congrega del Suffragio, usciva la grande bara con Gesù morto che, davanti la chiesa di San Francesco (appartenente alla parrocchia del Duomo, ma rientrante all’interno del quartiere di San Nicola), s’incontrava con la statua dell’Addolorata, portata dalla confraternita delle Stimmate; le due effigi entravano quindi nel Duomo. Conclusa la celebrazione della Passione, a sera ormai inoltrata, finalmente usciva la vera e propria processione. All’inizio c’era la suddetta Croce della Passione, così chiamata perché vi sono appesi i simboli della Passione di Cristo: questo particolare avvicina la processione di Atri a quelle marchigiane, mentre nella gran parte dell’Abruzzo i simboli, detti Trofei, sono vere e proprie statue portate separatamente a spalla. Seguivano il clero e la banda, dopodiché venivano, con i rispettivi sodalizi, il Cristo morto e la Madonna. Davanti la chiesa di San Giovanni attendeva, con i confratelli del Rosario e del Nome di Gesù recanti fiaccole in mano, il Calvario, che si univa al passaggio della processione.
Dopo il normale giro della città, si tornava in Piazza Duomo, dove ognuno iniziava a incamminarsi verso la propria chiesa: i sacerdoti e la croce rientravano a Santa Maria, il Calvario tornava a San Domenico seguito dagli abitanti del quartiere, e anche Maria e suo Figlio procedevano in direzione delle loro rispettive sedi.
Poiché le due statue dovevano passare insieme sul Corso, le confraternite avevano ideato una bella rappresentazione, il vero motivo catalizzatore per i fedeli atriani e delle località vicine: appena prima di rientrare in San Francesco, dall’alto della scalinata, come segno di estremo saluto, l’Addolorata si girava tre volte verso il Cristo morto, il quale adesso rientrava da solo a Santo Spirito.
E adesso? Lo stravolgimento che ha portato all’assetto attuale della processione del Venerdì santo risale al Novecento. Raffaele Tini, arcidiacono del Duomo (in ogni caso persona degnissima di lode e di grande cultura, avendo tra le altre cose istituito il Museo Capitolare), pensava che il corteo del Cristo morto fosse troppo scenografico e sontuoso, storcendo il naso di fronte a quel via vai continuo di statue; inoltre, voleva dare più risalto al Duomo che si vedeva subordinato alle altre chiese non avendo statue. Così, nel 1935, dopo aver tentato invano di farsi consegnare dalle confraternite le loro immagini (il Suffragio fu un po’ più docile, avendo dato la bara e la coltre nera), provvide di tasca propria a comprare il simulacro dell’Addolorata, messo in vendita all’asta dalla famiglia Arlini, e far realizzare il Cristo morto. Il Calvario rimase alla chiesa di San Domenico, tra la felicità degli abitanti del quartiere, poiché i soldi non bastavano per eseguire una copia.
Oggi perciò la processione conserva dell’originario assetto solo la Croce di Passione e il Calvario che entra nel corteo al suo passaggio. Mancano le confraternite, che erano il vero motore della processione, manca il triplice saluto dell’Addolorata, che ha in qualche maniera diminuito il forte senso drammatico e mi permetterei di dire religioso del rito, ed è di conseguenza venuto a mancare anche un certo legame tra la celebrazione religiosa e i fedeli (il fatto che ogni simulacro appartenesse a un quartiere stimolava molto la partecipazione), visto che il Calvario, rientrati in Duomo la Madonna e il Cristo, se ne ritorna solo soletto, un po’ squallidamente, a San Domenico.
Le accuse di incoerenza del Tini verso l’antica celebrazione potranno pur essere motivate, ma bisogna analizzarle attentamente. Se la processione atriana era così “scenografica”, cosa dire allora di quella di Chieti? O delle grandiose processioni pugliesi? O delle celebrazioni siciliane, nelle quali vengono talvolta lanciati fuochi d’artificio per “festeggiare” la morte di Cristo? Usando il criterio dell’arcidiacono, allora, queste sarebbero una blasfemia e bisognerebbe abolire così la totalità o quasi dei riti pasquali nel mondo cattolico.
Le statue che sfilavano un tempo al posto delle attuali ci sono ancora: l’Addolorata si trova nella sua cappella in San Francesco, il Cristo morto è collocato nella teca di un altare laterale a Santo Spirito.
Ripristinare la processione così come effettivamente era, magari assieme alla Passione vivente che si è svolta il Mercoledì santo nelle vie del centro storico fino a pochi decenni fa, sarebbe prezioso per tutta la città, la quale riacquisterebbe un pezzo di cultura e di religiosità dimenticato. Tra l’altro, altre località hanno riportato in vita numerose celebrazioni pasquali che l’andare del tempo e la mano dell’uomo avevano ambiato se non cancellato, come L’Aquila, dove nel 1954 il Venerdì santo è tornata a sfilare la processione abolita due secoli prima, o San Nicandro Garganico che negli anni ’80, all’interno di un progetto di rinascita della Settimana Santa locale, ha addirittura visto l’aggiunta di una celebrazione fino ad allora mai effettuata (l’incontro tra la Vergine e Gesù lungo la via del Calvario).
I due soli esempi qui citati sono utili per capire come certe usanze non siano il frutto di un’epoca nella quale esse debbano essere circoscritte obbligatoriamente, ma continuino a vivere ancora adesso e possono anche rinnovarsi e cambiare. E si badi, cambiare non vuol dire necessariamente cancellare.
Gioele Scordella

