Pubblicato Giovedì, 08 Dicembre 2016
Scritto da Alfio Carta

LA NOSTRA TERRA E IL TERREMOTO

PUÒ CROLLARE TUTTO MA NON IL RICORDO

Tanti anni fa, in agosto, la adorata Emiliana, io ed una coppia di amici decidemmo di conoscere meglio l’Italia, visto che a quei tempi i viaggi programmati erano troppo cari. Proposi di partire alla scoperta della dorsale appenninica spiegando come Roma, con la sua secolare tirannia, avesse gettato nell’ombra le Marche e l’Abruzzo. Già Gadda lo diceva, e a riprova lessi alcuni passi delle Meraviglie d’Italia. Da anni sentivamo dire che Ascoli Piceno è una delle città più belle d’Italia, ma occupati come eravamo a visitare Barcellona o Edimburgo o Marrakesh non c’era mai venuto in mente di andarci.

Trovammo un modesto agriturismo sulle pendici dei Sibillini, dalle parti di Amandola, e per una settimana esplorammo questa terra aspra e bellissima, macinando chilometri fra saliscendi e tornanti  alla scoperta di luoghi che mai avevamo immaginato, e che tuttavia formano il cuore, il nucleo di quello che tutti gli abitanti del mondo visualizzano davanti a sé quando sentono la parola  “Italia”. Solo D’Annunzio poteva descriverci certi scenari che scoprivamo “Vidi l’ombra vasta palpitar su la torrida petraia“. Solo perché conosciamo (sommariamente), Roma, Firenze, Napoli, Palermo, Verona, Siena, forse per questo noi conosciamo l’Italia? L’Italia è un mistero senza fine. Visitammo Ascoli, Fermo, facemmo il bagno a Sirolo, ma poi esplorammo quella parte tra Lazio, Umbria e Marche, sulla quale si è accanito il terremoto più cattivo e insaziabile che si possa immaginare. Visitammo Norcia, la cattedrale, poi cercammo qualcuno che potesse mostrarci una pieve con due commoventi rudimentali rosoni, ma l’uomo che aveva le chiavi quel giorno non poteva perché era a pranzo da sua sorella, a trenta chilometri. Partimmo allora per Sant’Eutizio, sede di uno dei più antichi e importanti Monasteri della cristianità. Sono ancor vive in me le immagini di questo  paradiso di bellezza e di conoscenza, con le  nostre  compagne, belle e sorridenti, davanti all’ingresso della piccola chiesa del monastero. Oggi quella chiesa è in parte crollata, così come non esistono più la chiesetta che cercammo inutilmente di visitare e nemmeno la cattedrale di Norcia.

Adesso la ragione di quel viaggio si è fatta più chiara. Avremmo potuto visitare altri luoghi, altrettanto belli. Viterbo, Lecce, Siracusa, per dire i primi nomi che mi vengono in mente. Gubbio. Ma anche Bergamo, visitate Bergamo, è meravigliosa. Pensate se un giorno tutte queste meraviglie non ci fossero più. Che ne sarebbe di quella cosa che chiamiamo Italia? Bene. Adesso sono qui per dirvi che l’Italia sta già cominciando a non esistere più,  perché  le cose che ammirai in quei lontani giorni, non esistono più. Restano solo fisse nella mia memoria, a comporre la parola “Italia” non meno di come la compongono il Duomo di Milano, la Cupola del Brunelleschi e la Cappella Sistina. E mi domando: cosa le rese possibili?  Come mai in una terra così dura, spesso teatro di guerre e di invasioni, mai tranquilla, mai troppo a lungo in pace, tanto che già Dante la chiamava “di dolore ostello” e Petrarca invocava “pace, pace “,  al modo in cui si invoca la cosa più desiderabile e più rara. Come mai, dicevo, proprio questa terra è stata capace di produrre tanta bellezza? Come mai in Italia più che nel resto del mondo natura e cultura hanno saputo produrre un unico incomparabile concerto?  Perché Foscolo ha potuto dire che “le convalli, popolare di case ed uliveti (cioè del duro lavoro degli uomini / mille di fiori al ciel mandano incensi”? La ragione più semplice, più limpida si trova dipinta nella celeberrima Allegoria del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti, a Siena, e tradotta in parole suona così: a dispetto di tutti i mali e di tutti i dolori, a dispetto di tutti gli orrori delle nostre biografie e di quelli prodotti dalla Storia, l’Italia è stata popolata per secoli da uomini persuasi che la vita, cosi com’è, valesse la pena di essere vissuta, e dovesse essere  perciò più bella possibile, più umana possibile. Vivere una vita umana qui, dove siamo e così come siamo. Nessun miracolo è più grande di questo, nemmeno se mio padre tornasse tra i vivi. L’Italia è questa cosa: un progetto unico, irripetibile, fondato sull’idea  che stare al mondo è una cosa bella  e buona.

Perciò la gente del terremoto non vuole andarsene. Non i vecchi taciturni, silenziosi davanti alle TV, e neppure quelli più loquaci e caparbi. Tutti, o quasi,  non ne vogliono sapere di altre case, o posti più sicuri. Vogliono rimanere lì, nelle loro case, anche se le case non ci sono più. Loro ci sono ancora e restano. Come mai? Nell’epoca in cui, giù in città, interi quartieri di pochi decenni vengono abbattuti per fare spazio ad altro, cosa vogliono queste figure rocciose, pronte ad affrontare inverni rigidi senza più nulla delle cose che amavano pur di restare lì, tra le loro pietre rotolate giù, quelle pareti sbrindellate, quei tetti ora a pezzi: tutte parti del loro corpo e della loro anima? Quei materiali sbiancati dalla polvere sono oggi la loro vita: impossibile crearne magicamente un’altra, altrove. Non è retorica localista: è la vita umana, reale.  Con i suoi aspetti fisici, molto concreti, coi suoi circuiti neurali che si sono sviluppati lì, nutriti da quelle immagini. È la memoria sorretta da quei ricordi: quelli insostituibili della propria storia.

È il cuore che batte assieme al respiro della propria terra, come ben sapeva il preciso astronomo Keplero.   Per tutti loro la casa non è solo un manufatto, sostituibile con un altro, meglio se in altro luogo, più sicuro. È il territorio dove è trascorsa la loro vita, impastata con esso e da lui nutria. Certo, per chi vive nella metropoli è diverso. Si può cambiare casa, quartiere, città, anche nazione, molto più facilmente. Siamo più autonomi dal territorio, meno radicati. La cosa ha naturalmente i suoi prezzi, come sanno bene etnopsichiatri e psicologi attenti agli aspetti identitari della psiche (malgrado le ostilità delle istituzioni anche psicologiche, perché identità e territorio sono considerati politicamente scorretti).

Lo sradicamento suscita vaste patologie, che fatalmente emergono quando si esagera col fingersi cittadini del mondo; dopo non sono proprio sciocchezze. Come dimostra, proprio in questi giorni, la difficoltà di “guarire“ con le psicologie correnti i disturbi degli immigrati islamici di seconda generazione, in Francia. Essere mobili è comunque possibile ed anche utile, soprattutto in un Paese diventato ormai zona sismica. Ma non per tutti, forse non per questi vecchi impervi come la loro terra. Alberto Magno e scienziati e pensatori del Rinascimento (da cui vengono molte delle meraviglie sparse tra queste chiese e queste pietre, segnate da quell’esperienza), conoscevano bene e perfettamente descrissero l’inscindibile unità  tra l’uomo e i suoi luoghi. Il ricco legame che li unisce e la difficoltà di separarli.

Alfio Carta