Pubblicato Giovedì, 17 Novembre 2016
Scritto da Concezio Leonzi

L’ARCHIVIO DI JORIO DI ATRI COMPIE VENT’ANNI

LA GRATITUDINE E LA MEMORIA

Il 4 dicembre 2016 alle ore 17,30 nel Teatro Comunale di Atri, in occasione dei primi vent’anni di attività e di ricerca dell’Archivio Di Jorio, il più ricco d’Abruzzo con oltre cinquecento opere manoscritte del compositore Antonio Di Jorio, sarà presentato al pubblico il nono Cd della collana discografica, intitolato “Di Jorio senza parole”, antologia di canti abruzzesi di Antonio Di Jorio elaborati per quintetto di fiati (flauto, oboe, clarinetto, corno e fagotto) da Concezio Leonzi, direttore dell’Archivio. Nella ricorrenza del ventennale pubblichiamo una saggio dello stesso Maestro Leonzi sulla vita e l’opera del compositore abruzzese Antonio Di Jorio, tra i più illustri personaggi della cultura abruzzese del Novecento, che visse ad Atri per circa dieci anni, dirigendo il Concerto Cittadino, la cappella della Cattedrale, insegnando Musica nelle scuole della Città, organizzando le famose maggiolate e componendo per il nostro Teatro meravigliose operette.

CHI È ANTONIO DI JORIO

UNA LEGGENDA CHE SFIDA IL TEMPO

In Abruzzo ancora oggi Antonio Di Jorio, tra i più geniali e rappresentativi compositori d’Abruzzo del Novecento, è una leggenda che non si spegne.

Da qualche anno sono sempre più numerosi e approfonditi gli studi su questo autore, del quale peraltro è conosciuta solo una parte della poliedrica produzione artistica, quella per cui conquistò l’appellativo di “Principe della canzone abruzzese”. La parabola di Antonio Di Jorio sotto questo aspetto ha qualcosa di singolare: il grande pubblico è ancora oggi convinto, a più di trent’anni dalla morte, che sia stato solo un autore di belle canzoni abruzzesi, alcune delle quali divenute poi di dominio pubblico come Mare nostre o Paese mè. Ma che sia stato, per esempio, un operettista di rare capacità e creatore geniale di melodie italiane che nulla hanno da invidiare ad opere analoghe contemporanee più fortunate; che abbia inoltre composto svariate pagine di musica sacra, da camera e addirittura quattro opere liriche, pochi lo sanno.

     La sua versatilità d’artista lo pongono in una posizione di primo piano nella storia della musica abruzzese del sec. XX. Senza dimenticare il ruolo importante svolto attraverso la diffusione delle sue opere, l’instancabile attività direttoriale e organizzativa, egli è senza dubbio uno dei maggiori esponenti della cultura abruzzese, da collocarsi accanto ai suoi più grandi contemporanei.

     Quando il maestro atessano morì a Rimini nel 1981, tutte le opere manoscritte furono donate al Comune di Atri dalla figlia, prof.ssa Pasquina, unica erede. Nel 1996 ne nacque l’Archivio Di Jorio, ora aperto al pubblico nell’elegante salone del Teatro Comunale di Atri con l’obiettivo principale di divulgare tutte le opere di Di Jorio, comprese quelle non conosciute in tempi moderni, ma che meritano tutta l’attenzione della critica contemporanea.

     «Antonio Di Jorio nacque il 28 giugno 1890 ad Atessa (Chieti), da Girolamo e Antonia Cinalli, ultimo di sette fratelli, cinque dei quali morirono in tenerissima età per malattie infantili allora incurabili, e rimasero in vita solo il primo, Pasquale, nato nel 1877, e l’ultimo, Pietro Antonio, detto Angeluccio».[1]

     Dimostrò sin dalla tenera età spiccata predisposizione all’arte musicale, tanto da essere ‘scritturato’, a soli undici anni, cornista nella piccola banda del “Quarto S. Giovanni” di Atessa, destando ammirazione e riscuotendo generali consensi. A soli dodici anni, nel 1902, il primo grande tour come cornista in una banda di cui il fratello Pasquale era direttore. Visitò così la Serbia, l’Austria, l’Ungheria, la Bulgaria, la Turchia e la Russia. Il leggendario giro in Europa, ricco di aneddoti e soddisfazioni, non bastò però a suggellare l’ingresso nel mondo dell’arte: bisognava organizzare il futuro, intraprendere studi seri che garantissero una preparazione solida, capace di fare del piccolo Antonio un musicista in piena regola.

     Il padre, proprietario di un forno del paese, persuaso da Pasquale delle capacità musicali del suo fratello minore, decise di chiedere l’autorevole parere di Camillo De Nardis di Orsogna[2], insegnante di armonia e contrappunto al Conservatorio “San Pietro a Majella” di Napoli. Il quale, esaminate le prime timide composizioni del ragazzo, privo di alcuna conoscenza di armonia e contrappunto, incredulo chiese a Pasquale se quelle pagine, delle quali lo stesso Di Jorio in seguito si meraviglierà, le avesse scritte proprio Angeluccio, che emozionato attendeva il verdetto in un angolo, accanto al pianoforte. «Quei lavori li ho riletti con mio grande stupore ed ho trovato che De Nardis aveva ragione», confesserà un giorno.

     La cosa fu bell’e fatta. Di lì a qualche settimana, Di Jorio si trovò a Napoli per gli studi accademici: con F. Ancona per l’armonia e con lo stesso De Nardis per la composizione. «Vivevo – racconterà egli poi – in una oscura cameretta di Vico Foglie a Santa Chiara e la camera era così stretta che sedendo per lavorare sul trespolo girevole potevo passare tranquillamente dal tavolino al pianoforte e al letto».[3]

     A Napoli, quindi, studiò composizione con Camillo De Nardis e pianoforte con il Maestro Enrico Lanciano, Maestro di Cappella al Tesoro di San Gennaro nel Duomo di Napoli e professore di pianoforte al Liceo Musicale “Muzio Clementi”. L’amore per l’arte e il giovanile entusiasmo bruciarono le tappe canoniche: il 15 novembre 1909 Di Jorio si diplomò brillantemente al “S. Pietro a Majella” per la soddisfazione sua e dei suoi cari che con tanti sacrifici l’avevano sostenuto negli studi. È questa la stagione in cui mosse i primi passi come geniale autore di canzoni napoletane che lo condurranno al successo, la stagione della Bella époque napoletana, dei versi di Salvatore Di Giacomo, delle canzoni di Maldacea e di Pasquariello, sullo sfondo di Piedigrotta. Agli stenti della vita bohémienne sopravvisse suonando il pianoforte al cinematografo, allora ancora muto, dirigendo spettacoli di rivista nei teatri minori o eseguendo lui stesso al pianoforte le sue melodie napoletane nelle ‘periodiche’, riunioni private dedicate al canto e alla recitazione, appuntamenti dell’aristocrazia dove la cultura si sposava al passatempo del pettegolezzo. In tali ricevimenti salottieri si parlava di corse di cavalli, di soubrettes e di café chantant.

     In quella Napoli di inizio secolo, ricca di fervori intellettuali e di infatuazioni parigine sotto cui si nascondevano drammatici contrasti sociali, Di Jorio si nutrì dell’amicizia di giovani poeti e musicisti, compagni di studi dei quali condivideva l’amore goliardico per la vita. Sei lire per sera al “pianoforte conduttore” gli sembravano già una conquista favolosa. Il nome di Di Jorio era in continua ascesa.

     Nei retrobottega delle dinamiche case musicali partenopee non si parlava d’altro che di questo bel giovanotto abruzzese che si faceva largo sempre più. Naturalmente non era la sua proverbiale avvenenza la ragione del successo: le sue melodie, ora struggenti, ora brillanti, sempre fresche e originali, s’imponevano ai gusti di tutti con insolita determinazione. Tra le più geniali melodie napoletane nascono negli anni Dieci Ah, che te voglio fa!, Ah, core core!, Fuoco ’e vint’anne, Primmo ammore, recentemente raccolte in una pregevole pubblicazione discografica nel 1998.[4] Le melodie di questa antologia possono considerarsi tra le più rappresentative di Di Jorio e forse quelle che meglio esprimono la sua fluidità creativa. Tanto raffinate che richiamano alla memoria la romanza da salotto, per l’eleganza della linea melodica. Dal 1911 al 1921 l’editore napoletano don Raffaele Izzo ne diede alle stampe ben trenta, a conferma della sua sensibilità, ma anche di un raro fiuto commerciale. Sapeva bene, don Raffaele, che un nuovo compositore di qualità nella sua scuderia significava successo e denaro.

     La fortuna per il maestrino abruzzese, infatti, non tardò ad arrivare. Le sue canzoni, in versioni a stampa di lusso, furono spesso affidate all’interpretazione di personaggi di grande successo, come Donnarumma, Pasquariello, Franzi e Gòdono, che le includevano nel loro «repertorio speciale», dicitura che Izzo faceva stampare con orgoglio sul frontespizio. Accanto alle prime giovanili soddisfazioni economiche (Izzo pagò 500 lire per le prime dieci canzoni e l’impresario Vincenzo Russo lire 6,50 al giorno come direttore d’orchestra), si faceva sempre più viva la stima per Di Jorio negli ambienti più raffinati: E. A. Mario, Edoardo Scarfoglio, Salvatore Di Giacomo e Matilde Serao più volte parlarono di lui in articoli di carattere elogiativo.

     La Piedigrotta del 1911 a cui partecipò con la canzone Nun ne sai cchiù fu per Di Jorio un trionfo. Da un giornale dell’epoca: «La canzone di Di Jorio Nun ne sai cchiù è una delle migliori se non la migliore di quest’anno» e aggiunge: «Si può dedurre sicuramente che Di Jorio, dopo Tosti, è stato l’unico abruzzese che ha saputo trattare il genere partenopeo con ‘sommo onore’».

     Risale a questi anni napoletani l’amicizia fraterna con Giuseppe Garofalo,[5] giovane poeta e letterato che scriverà per Di Jorio i testi di decine di canzoni napoletane e italiane, i libretti di varie operette e dell’opera lirica La magalda.

     Dalla canzone napoletana giunge a quel punto l’esigenza di estendere il campo d’azione ad altri generi musicali. Di Jorio che ben conosceva i segreti della rivista e dell’avanspettacolo – esperienza ereditata dall’attività di pianista e di direttore d’orchestra – tenta la fortuna nel mondo dell’operetta.

     Nel 1911 era ancora a Napoli, quando andò in scena al Teatro Excelsior di Santa Maria Capua Vetere la sua prima operetta, La pecorella smarrita, a cui seguì La traversata dell’Atlantico, rappresentata con successo al Teatro Rossini di Napoli. Seguirono, fino al 1948, altre sedici operette, confermando una straordinaria capacità di compenetrare perfettamente il genere musicale, alla pari degli autori contemporanei più celebrati, che vedevano in Di Jorio il compositore raffinato, l’operettista dalla vena creativa ancora oggi insuperata. Basta sedersi al pianoforte e suonare qualche rigo di un’operetta qualsiasi di Di Jorio, una qualsiasi aria, un qualsiasi duetto o un qualsiasi couplet per rendersene conto. In ogni nota c’è il senso del teatro, il fascino della solarità melodica, mai scontata o banale, l’eleganza di un’armonia avvincente e sicura, in una parola il tratto del genio.

     «È inutile, maè: ci sta lu segne!». È la storica frase che il vecchio scultore Basilio Cascella pronunciò una sera sul principio del 1923, dopo averlo sentito «sonare al piano qualche sua composizione, dietro insistenti preghiere da parte di tutti i presenti»[6] «e fece sul pianoforte col pollice il gesto di plasmare».[7]

     Come non ricordare le operette più famose? Meriterebbero tutte di essere rappresentate ancora oggi con la frequenza di un tempo, con tutta la dignità artistica delle operette sorelle più fortunate: Costa azzurra del 1919, Il centro di Firenze del 1927, Da Livorno a Portoferraio del 1917[8], La bottega fantastica del 1933, trasmessa alla radio, su testo di Luigi Antonelli; e poi ancora Oh, oh Zozò del 1932, Le tre stelle del 1917, L’isola delle donne del 1935, e altre undici operette per bambini.

     Ma torniamo al giovane Di Jorio del 1913, l’anno di Primmo ammore, su versi di E. Nicolardi, canzone struggente e carica di passione giovanile.

     La guerra è alle porte. Presto dovrà abbandonare Napoli, la patria lo chiama e sulla felicissima parentesi napoletana sta per calare il sipario. Il bel golfo, Toledo, i pittoreschi tramonti di Posillipo saranno d’ora in poi soltanto teneri ricordi di gioventù. Quanti pensieri, quanti dubbi si agitavano nel cuore del giovane compositore abruzzese a termine della prima Guerra Mondiale, nel 1919! Tornare a Napoli o stabilirsi definitivamente in Abruzzo? La guerra, tra i fumi e le rovine, aveva spento in ognuno il senso della speranza: non c’era più spazio per i sogni, per progetti audaci. Fu così, allora, che Di Jorio tornò nella sua piccola Atessa, nel calore della casa paterna, tra le braccia della famiglia a cui presenterà la bella Caterina che sposerà nel 1920.

     L’amministrazione comunale gli affidò subito la direzione della banda cittadina. Con i mezzi di trasporto che ognuno può immaginare, la banda richiedeva un forte spirito di adattamento e un ottimo stato di salute: pochissime erano le ore di sonno, i collegamenti tra le varie città da raggiungere non erano agevoli, magrissimi i guadagni. Ma alla banda Di Jorio si dedicò con giovanile entusiasmo, forse perché rivivevano nelle festose marce i mille ricordi d’infanzia, con la banda del Quarto di S. Giovanni.

     D’ora in poi la sua attività compositiva procederà su due binari paralleli: la banda e la canzone abruzzese, che non poche volte si compenetrano in formule esecutive assolutamente originali. Spesso il maestro faceva cantare le sue canzoni abruzzesi ad alcuni bandisti, mentre altri li accompagnavano. Altre volte, al contrario, le canzoni allegre diventavano marcette per bandicine di paese.[9]

     Nella vicina Lanciano conosce due tra i più noti poeti abruzzesi, Cesare De Titta (Sant’Eusanio del Sangro, 1862 - ivi 1933) e Luigi Illuminati (Atri 1881 – ivi 1962) con i quali Di Jorio collabora intensamente fino alla maturità. Le prime canzoni nate con don Cesare furono La ciardiniera, La canzone de l’amore, Caruline, Vuccuccia d’ore. Nel 1920 esordì in Abruzzo con l’istituzione e direzione della prima Maggiolata Ortonese[10], entrando ufficialmente nell’empireo della canzone popolare. Vi partecipò con le canzoni Nen ci abbadà e Vuccuccia d’ore su versi del De Titta. Fu un trionfo, come negli anni napoletani di Piedigrotta.

     Ad Ortona, lungo la pittoresca Passeggiata Orientale, il ‘fenomeno Di Jorio’ era sulle bocche di tutti. E poi c’era l’approvazione autorevole di Camillo De Nardis, padrino tutelare della manifestazione. Dalla ridente località marinara le due canzoni si diffusero subito in ogni angolo della regione e, pur contenendo tutte le caratteristiche musicali che da sempre avevano contraddistinto i canti popolari d’Abruzzo, le melodie struggenti dei suoi avi, le ninne nanne, le canzoni dei campi, l’estro giovanile di Di Jorio conferisce ad esse qualcosa di nuovo, genuino, spontaneo, che ispirato all’animo del nostro popolo, originava uno stile musicale di inusitata freschezza.

     Nella nota introduttiva alla raccolta Canti d’Abruzzo, Di Jorio precisa: «Al critico attento che potrebbe notare una certa povertà armonica in queste melodie, mi è doveroso chiarire che le ho così sentite e volute per meglio rispecchiare l’anima semplice della nostra gente; il canto si rende più genuino se accompagnato dal “du-botte” con i tre gradi fondamentali (I.IV.V) della scala maggiore e, meglio ancora, con le sole voci». Questa autorevole affermazione la dice lunga sul problema tanto dibattuto e mai risolto riguardante l’armonizzazione per coro dei canti popolari. Non è raro ascoltare canti abruzzesi elaborati con un gusto polifonico molto più vicino alla tradizione fiamminga del ‘500 che alla rigorosa essenzialità del canto popolare.

     La dottrina in materia di armonia e contrappunto di alcuni direttori di coro abruzzesi spesso risulta superflua e quanto mai fuori luogo. E poi, se Di Jorio avesse desiderato per i suoi canti una tessitura polifonica a quattro, cinque o sei voci, l’avrebbe fatta lui, di sua mano, senza demandare ad altri il delicato compito. Da fine conoscitore dell’armonia e del contrappunto, non gli sarebbe costato nulla. Ma torniamo alle armonie dijoriane e lasciamo ad altri il compito di giudicare. L’armonia nei canti di Di Jorio non è affatto povera; si potrebbe forse parlare di semplicità armonica, ma che si traduce in una forza distintiva di notevole efficacia.

     Di Jorio, pur nei confini di una struttura armonica essenziale, sa creare melodie di intensa ispirazione che forse solo in Settimio Zimarino possiamo ritrovare nel periodo delle prime maggiolate.[11] Solo nelle canzoni abruzzesi della maturità (Paese mè, Addie muntagne, Sirene de mare ed altre) Di Jorio si concederà, tuttavia, qualche libertà armonica, senza mai snaturare il canto lineare a due voci, sempre procedente, come suggerisce la tradizione, per intervalli di terze o seste e per gradi congiunti.

     La canzone abruzzese sarà una passione sempre viva nell’animo geniale e irrequieto di Di Jorio: ne comporrà ben 112, distribuite nell’arco di sessant’anni, e in ciascuna di esse vi è l’eleganza del suo nobile tratto, la semplicità della melodia e la poesia di note fluidissime: il segreto della sua genuina personalità musicale. Non v’è coro abruzzese che non abbia in repertorio i canti del musicista atessano: Mare nostre, Paese mè, Luntane cchiu luntane, Dindò, Teresine, Ninna nanne, Addie muntagne, Serenata spassose, Caruline, Ciele e mare, Lu parrozze, Quande mamme me dicè, Vuccuccia d’ore, Oilì oilà, A la fonte, Scioscia mè. Chi non li ricorda? Sono certamente i canti più amati di Di Jorio che ripercorrono la genesi, lo sviluppo e la storia della canzone abruzzese.

     Non va dimenticato, inoltre, che il maestro atessano fu il più conteso dalla folta schiera di poeti, attivissimi fra le due guerre e spesso di buona fama. Oltre ai già citati Illuminati e De Titta, stretti collaboratori furono fra gli altri: Luigi Brigiotti, Guglielmo Cameli, Lamberto De Carolis, Evandro Marcolongo, Guido Giuliante, Nicola Mattucci, Empedocle Mazzetta, Nino Saraceni, Giulio Sigismondi, e più tardi Giuseppino Mincione e Ottaviano Giannangeli. In qualche caso musicò versi suoi, rivelando sensibilità e grazia poetica, come nei canti autobiografici Paese mè e La ruella.

     Per dirigere la banda cittadina Di Jorio giunse in Atri dove rimase in periodi alterni dal 1921 al 1933[12]. Dalla collaborazione con l’umanista atriano Luigi Illuminati, naturalmente più ricca in questi anni di permanenza nella città degli Acquaviva, nacquero pagine di alto valore poetico e musicale: Mare nostre, Luntane cchiu luntane, Lu piante de li staggiune, Ciele e mare, A la fonte, Amore che se ne và, Core ferite e altre, dove il testo poetico si eleva a toni decisamente ricercati per profondità di concetti ed eleganza di stile. Possiamo definire i componimenti di Illuminati vere e proprie canzoni d’autore nel senso più nobile del termine: il vernacolo assurge, grazie alla sua sensibilità, a dignità poetica, come mai prima si era verificato nella canzone popolare abruzzese. Di Luigi Illuminati sono anche i versi di due splendide romanze da camera in lingua: Serenata abruzzese e Sogno d’artista, entrambe comprese nella citata raccolta discografica dal titolo “Suspiro…”.

     Dopo la parentesi atriana Di Jorio fu a Ripatransone, nell’ascolano, come direttore di banda, insegnante di musica e dinamico animatore del Teatro Mercantini.

     Nel 1932 raggiunse definitivamente la Romagna in seguito al superamento del concorso a cattedre per l’insegnamento di Musica e canto corale negli Istituti Magistrali, dove risultò al secondo posto su scala nazionale (al primo un cieco di guerra con assoluto diritto di precedenza). Presidente della commissione esaminatrice: Achille Schinelli, il padre della didattica musicale italiana del Novecento. Sede di nomina fu Forlimpopoli, presso l’Istituto Magistrale “Valfredo Carducci” di cui fu anche Preside per otto anni, fino al collocamento a riposo (1960).

     La nuova vita in Romagna, dedita all’insegnamento e alla direzione del Concerto Bandistico “Città di Rimini”, fu fonte di ispirazione per opere più ‘impegnate’. Nacquero opere sinfoniche come la Prima rapsodia abruzzese, il poema Terra d’Aligi, la Sonata in fa minore, la sinfonia Sogno di bimbi, le impressioni sinfoniche Abruzzo, la Rapsodia ortonese, il balletto Il diavolo in campagna e quattro opere liriche: A la fonte [13], La Magalda, L’inghippo e La Vergine di Cesarea, tutte trasmesse alla radio e accolte favorevolmente dal pubblico e dalla critica.

     Anche la musica sacra riveste un posto importante nella ‘bottega fantastica’ del genio dijoriano. Tra il 1941 e il 1944 compose cinque messe in latino ad una, due e tre voci con organo: Assumpta est Maria, Est vita ventura, Haec Dies e Jesus Redemptor (con orchestra d’archi) e Attende Domine, recentemente rinvenuta, nelle quali sono particolarmente evidenti la maestria contrappuntistica, la grandiosità della concezione compositiva e la ricerca di ricchezza e bellezza sonora. Una grande quantità di composizioni brevi destinate al culto si affianca a queste messe: inni, mottetti, acclamazioni, scene religiose e melodie varie, tra cui un’Ave Maria, dolcissima.

     Continuano a fiorire, nel frattempo, canzoni italiane, napoletane, abruzzesi, commedie musicali e pagine di musica da camera di pregevole fattura. Di queste ultime ricordiamo: Lento appassionato per violoncello, L’usignolo d’Abruzzo (fantasia per cornetta in sib e pianoforte, eseguita per la prima volta nel Teatro Comunale di Teramo il 19 marzo 1927), Concertino per corno (dedicato al grande cornista orsognese Domenico Ceccarossi), Quartetto per archi, Sestetto (per due flauti, clarinetto, tromba, violoncello e pianoforte),

Sonatina per viola e l’incantevole Sonata in fa minore per pianoforte[14].

     Un ulteriore aspetto del genio multiforme di Di Jorio fu quello della canzone italiana, al cui fascino non riuscì a sottrarsi, proprio quando negli anni Trenta cominciò a coinvolgere un pubblico sempre più numeroso, grazie anche al diffondersi della radio. E anche qui lo vediamo in prima fila. «Un avvenimento notevole fu, nel 1936 e poi nel 1937, il concorso della canzone italiana, indetto dall’Azienda di Soggiorno di Rimini, concorso a carattere nazionale. I concorrenti parteciparono da tutta Italia e le due manifestazioni, presentate nel Piazzale del Parco, di fronte al Grand Hotel, riscossero tanto successo di critica e di pubblico, che accorse numerosissimo.

     Gli spettacoli furono presentati in una vivace edizione musicale (Di Jorio dirigeva l’orchestra) e in una piacevole cornice coreografica grazie anche ad un ottimo corpo di ballo. Poi questo concorso fu abbandonato e lo riprenderà Sanremo con la fortuna che conosciamo».[15] La manifestazione del 15 agosto del 1936 si chiamò “Primo Festival della Canzone Italiana”. Oltre all’Orchestra e al Corpo Bandistico “Città di Rimini” diretti da Di Jorio, vide la partecipazione dei soprani Marcella Rivi e Mariù Torri, e dei tenori Daniele Serra e Mario Latilla. L’anno successivo, il 5 agosto 1937, la manifestazione fu chiamata “Festa della Canzone”. Di Jorio fu affiancato nella direzione da Leo Selinsky, e vi parteciparono i cantanti Marcella Rivi, Tito Leardi ed Ezio Badii.[16] Delle circa 120 canzoni italiane ricordiamo: Giovinezza, Paquita, Come la neve, La casetta a righe blu, Una gondola a Dakar, Stratosfera, Farfalla, Non dischiudere il veron, Prima passione, Stornelli modernissimi, Per te e tante altre, incise su cd dall’Archivio Di Jorio[17] e giunte fino a noi con immutata forza evocativa.

     Con La barchetta di carta, nel 1961, partecipò al terzo Festival di canzoni nuove per bambini, “Lo zecchino d’oro”, classificandosi ai primissimi posti, fra migliaia di canzoni concorrenti inviate da tutta Italia.[18] Il passerotto, altra canzone per bambini, composta nel 1953 a scopo didattico, ottenne il primo premio al concorso nazionale RAI per composizioni corali destinate a complessi di voci infantili.

     Ecco chi fu Di Jorio. Ottanta anni di proficua attività musicale, insomma, espressa ai massimi livelli artistici, in tutte le forme, con eguale entusiasmo, in piena serenità d’animo, sul filo di una vita semplice ma anche ricca di soddisfazioni.

     Poco prima di morire, a novant’anni suonati, una sera, malato, chiese carta e penna. Con grafia malcerta, su di un pentagramma tracciato a mano libera tornarono pian piano a prendere forma, come riaffioranti dalla tavolozza di antichi ricordi, le prime otto battute di Mare nostre, composta sessant’anni prima. Col palpito nel cuore, in quelle semplici, struggenti note, rivisse le emozioni di quel lontano tramonto di primavera, quando dalla Villa Comunale di Atri contemplava il Mare Adriatico, accanto al poeta Luigi Illuminati. Un gesto carico di sentimento: l’estrema conferma del suo amore per il suo Abruzzo[19].

Antonio Di Jorio morì a Rimini il 12 dicembre 1981. La salma fu traslata nella natìa Atessa, accanto a donna Caterina Rafanelli, moglie del Maestro.[20]

Concezio Leonzi



[1] Da Pasquina Di Jorio, Appunti biografici, in Marco Della Sciucca, Antonio Di Jorio. Percorsi della vita e dell’arte, Lucca, Akademos-Lim, 1999, passim.

[2] Camillo De Nardis (Orsogna, Ch 16.V.1857 – Napoli, 5.VIII.1951), fu autore di molte opere teatrali, di composizioni sacre e profane e varie pubblicazione di didattica della composizione. Fu docente nei conservatori di Palermo e Napoli, e in quest’ultimo ebbe anche la nomina di vice direttore; cfr. DEUMM (Dizionario enciclopedico della musica e dei musicisti, UTET, 1983 – 1990), s.v.

[3] La citazione è già riportata in Giuseppe Rosato, «I tre tempi biografici di Antonio Di Jorio», in Canti d’Abruzzo di Antonio Di Jorio, Milano, Curci, 1974, p.11.

[4] Compact disc Suspiro… Arie italiane e napoletane di Antonio Di Jorio, Maura Maurizio, soprano, Marco Moresco, pianoforte. Archivio Di Jorio / ADJ001 / 1998 / DDD / libretto: italiano, inglese. Le stesse canzoni anche nel Compact disc Primmo ammore, canzoni napoletane di Antonio Di Jorio, Mariarita D’Orazio, soprano, Orchestra e Coro “Antonio Di Jorio” di Atri, direttore Concezio Leonzi. Archivio Di Jorio / ADJ008 / 2012 / DDD / libretto: italiano, inglese.

 

[5] Giuseppe Garofalo (Napoli, 1892 – ivi, 1971), giornalista, letterato e poeta, autore di libretti d’opera, nonché funzionario del Ministero di Grazia e Giustizia.

Su Garofalo cfr. Ettore De Mura, Enciclopedia della canzone napoletana, Napoli, Il Torchio, 1969, I, pp. 86-87.

[6] Oberdan Merciaro, «Le prime Maggiolate abruzzesi», in Manifestazioni musicali in onore del musicista Antonio Di Jorio nel suo ottantesimo compleanno, Teramo, Amministrazione Provinciale di Teramo, 1960, p. 19.

[7] Ivi.

[8] L’operetta “Da Livorno a Portoferraio” è stata riproposta ad Atri il 14 dicembre 2013 dal Coro “A. Di Jorio” di Atri, regia di Alberto Anello.

[9] Ricordo quando ad Atri, all’alba dell’otto dicembre, giorno dell’Immacolata Concezione, la banda accompagnava i ‘faugni’ al suono festoso de Lu Parrozze o di Caruline. E noi ragazzini ci univamo col canto alla musica.

[10] La Maggiolata nasce in Abruzzo il 3 maggio 1920 ad Ortona, in occasione delle annuali feste in onore del Patrono della città, San Tommaso. Il progetto fu concordato qualche tempo prima dai musicisti Antonio Di Jorio e Guido Albanese, il poeta Evandro Marcolongo e lo scultore Gildo Ricci. Dapprima fu denominata “Piedigrotta abruzzese” e dalla terza edizione (8 maggio 1922), “Maggiolata”.

[11] Carmine Antonio Zimarino (Casalbordino, 5.I.1885 – Chieti, 7.II.1950), francescano col nome di padre Settimio, fu organista e compositore dalla facile melodia, espressa con dotta mano. I suoi brani pastorali e i suoi canti natalizi furono assai popolari in Abruzzo e fuori. Studiò a Pesaro sotto la guida di Antonio Cicognani e svolse la sua attività didattica presso il Seminario di Chieti. Scrisse gli oratori L’apoteosi del poverello di Assisi, I protomartiri, S. Antonio da Padova. Scrisse inoltre molte cantate, messe, inni, litanie, canzoncine sacre e molta musica organistica e da camera. Cfr. Antonio Piovano, Immagini e fatti dell’arte musicale in Abruzzo, Pescara, Didattica Costantini, 1980, p.153.

[12] Da un certificato della Regia Scuola di Avviamento Professionale di Atri, il Maestro Di Jorio risulta in servizio presso tale scuola come Insegnante di Canto Corale dal 1° gennaio 1931 a tutto il 31 marzo 1933.

[13] Mai rappresentata.

[14] Opere comprese nel Cd Antonio Di Jorio. La musica da camera, artisti vari, Archivio Di Jorio / ADJ002 / 1999 / DDD / Libretto: italiano, inglese. Disponibile presso l’Archivio Di Jorio, Atri (Te).

[15] Pasquina Di Jorio, Appunti biografici, cit., p. 98.

[16] Da una locandina dell’epoca conservata nell’Archivio Di Jorio, Atri (Te).

[17] Compact disc Antonio Di Jorio. L’infinito, romanze e canzoni italiane, Concezio Leonzi,  Marco Della Sciucca, pianoforte, Archivio Di Jorio / ADJ003 / 1999 / DDD / Libretto: italiano, inglese. Disponibile presso l’Archivio Di Jorio, Atri (Te).

[18] La canzone è pubblicata nella raccolta completa delle canzoni finaliste del 3° Zecchino d’oro, Milano, Cervino Edizioni Musicali, Gruppo Editoriale Curci, 1961, pp.22-23.

[19] L’originale del frammento manoscritto è conservato nell’Archivio Di Jorio.

[20] Per uno studio ampio e approfondito su Antonio Di Jorio si rimanda al volume di Marco Della Sciucca, Una sintesi biografica è nella voce «Antonio Di Jorio» di Raoul Meloncelli, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XL, Roma Enciclopedia Treccani, 1994.