Pubblicato Lunedì, 10 Ottobre 2016
Scritto da Santino Verna

Una vera gioia per gli occhi...

TESORO E MUSEINO: I DUE SINONIMI DEL CAPITOLARE DI ATRI

Sulla “Guida dell’Italia Cattolica” (Roma, 1950), la parte sulle diocesi italiane, affidate al Prof. Francesco Sapori, dell’Università di Roma, riguarda, ovviamente, anche la Chiesa di Atri. Sulla guida è ancora unita a Penne, ma dal 2 luglio 1949 era legata, sempre con la soluzione della perfetta uguaglianza, aulicamente “aeque principaliter” a Teramo.

Francesco Sapori, avvocato romagnolo originario di Siena, era stato sottotenente di fanteria durante la Grande Guerra. Giornalista e docente di storia dell’arte, fu legato a Tommaso Marinetti, e promosse in qualche modo l’arte fascista. La Romagna gli rimase nell’anima, tanto da ambientare in quella terra, alcuni romanzi e novelle. I cambiamenti di gusto nel mondo della storia dell’arte e l’appartenenza al regime, lo misero nel dimenticatoio dopo l’ultimo conflitto mondiale.

Nella guida una macroscopica lacuna: non si parla del Miracolo Eucaristico di Lanciano. E’ vero che i Conventuali ancora tornavano in S. Francesco e la chiesa era retta da un canonico, coadiuvato da una congrega, ma rimane il miracolo più completo e il più antico nella storia della Chiesa. Per Bolsena e Orvieto, le righe sono molte, ma è tutta un’altra storia che non ripercorriamo in questa sede.

Quando parla di Atri nell’opera per il Giubileo non si parla di “Museo Capitolare”, ma di “Tesoro”, quasi a ricordare le intenzioni dell’Arcidiacono Raffaele Tini, con i suggerimenti dell’archeologo Felice Barnabei e dello storico dell’arte Corrado Ricci. Il Museo non doveva essere una raccolta di opere d’arte di grande importanza, una Galleria degli Uffizi in miniatura, ma un luogo, annesso alla Cattedrale, per custodire manufatti del Duomo e delle chiese del territorio, peraltro molto esiguo, di Atri.

Si parla di polittici lignei intagliati e della croce processionale del ‘500, locuzione poco felice, per dirla con Corrado Fratini, perché bisognerebbe dire XVI secolo. La croce processionale è di Giovanni da Rosarno, sconosciuto argentiere operante in Atri, emulo di Nicola da Guardiagrele. Probabilmente era originario del paese eponimo in Calabria, ma in quest’ultimo non ci sono tracce della memoria. Gli sarà accaduto come Nicola Pisano, originario della Puglia (molto più grande di quella che intendiamo oggi), ma rivendicato dalla Toscana.  Una croce bifrontale, con l’Eterno Padre in trono e Gesù Crocifisso. Non si parla quindi delle due principali opere del Capitolare di Atri: la Croce in cristallo di rocca di scuola veneta (XIII sec.), proveniente dalla chiesa di S. Francesco e la Maestà di Luca Della Robbia (1470 ca.), proveniente dalla Cattedrale, e creduta manufatto della dote di Isabella Piccolomini-Todeschini, consorte di Andrea Matteo Acquaviva d’Aragona.

Il polittico ligneo più famoso, menzionato dal Sapore è quello di S. Giacomo Apostolo, della bottega dei Moranzon (XV sec.), testimonianza del ruolo di Atri come città di pellegrinaggio, ribadito da Ettore Cicconi e Carmine Manco nella monografia sul giubileo di Atri. Il manufatto comprende, oltre al simulacro a tutto tondo dell’Apostolo di Compostela, 18 formelle jacopee. Ne costituiscono l’agiografia per immagini. Per gli atriani, la leggenda più celebre è quella del condannato, la cui innocenza fu provata, dalla rianimazione dei polli arrostiti sulla tavola del giudice. Una storiella planetaria, diffusa in Portogallo, per la contiguità di Santiago, e il gallo è diventato uno dei simboli della nazione. La devozione a S. Giacomo, patrono dei pellegrini, uno dei tre discepoli prediletti del Signore, testimone della Trasfigurazione, suscitava la disputa circa il luogo dell’episodio dei galli.

La descrizione su Atri, anche per ragioni di spazio, è incompleta perché non vengono descritte tutte le chiese della cittadina. Non si parla di S. Francesco. E neppure di S. Nicola e S. Spirito. Si poteva parlare di S. Pietro. Sarebbe stata demolita nel gennaio 1957, con un’operazione molto rapida. Il monastero con l’ultima monaca era finito, e l’aula liturgica forse non si trovava in perfette condizioni. All’epoca non vi era grande attenzione per le opere d’arte, e il centro cittadino subì infelici interventi urbanistici. Sulla guida si parla di S. Domenico, menzionata con il nome popolare, perché S. Giovanni Battista sarà una riconquista dei decenni seguenti, grazie soprattutto a Piergiorgio Cipollini. Possiamo giustificare il Prof. Sapori se non parla delle chiese rurali, ma pure guide degli anni ’80 e ’90 non parlano della Cona, il cui soffitto barocco cassettonato è la principale opera d’arte.

Il Museo Capitolare di Atri è stato definito “museino” da Giancarlo Gentilini, docente di Storia dell’Arte Moderna all’Università degli Studi di Perugia e massimo studioso dei Della Robbia. Museino, cioè epilogo della Cattedrale. Si viene in Atri per visitare il Duomo e poi il Museo, non il contrario. A Firenze si fa la visita a S. Maria del Fiore e si ha già un nutrimento completo della Cattedrale cittadina. Il Museo dell’Opera del Duomo, se si ha tempo, si può visitare, ma l’itinerario dei turisti contempla altre collezioni del capoluogo toscano. A Perugia, la Cattedrale di S. Lorenzo con il sagrato dal quale si ammira la Fontana Maggiore con il Palazzo dei Priori, è certamente più importante dell’attiguo Museo. Se vi sono problemi di tempo, si rinuncia a quest’ultimo, per godere Via dei Priori con l’assortimento di chiese e case, la Torre degli Sciri e la Via Francolina, memoria dei pellegrini medioevali.

Comunque Tesoro è sempre un termine appropriato per il Museo di Atri, il primo in ordine cronologico, perché per dirla con l’architetto e storico dell’arte Antonello Alici, è sempre “la gioia degli occhi”.

SANTINO VERNA