Pubblicato Martedì, 02 Agosto 2016
Scritto da Santino Verna

UN RISTORANTE RICCO DI STORIA

LA CAMPANA D’ORO: UNA TRADIZIONE RITROVATA

Da poco tempo la taverna di Piazza Duomo ha ripreso il nome originario “La Campana d’Oro”. Si affaccia su una delle due piazze principali di Atri e ha rappresentato il ristorante per antonomasia del centro storico, perché collegato alla sgargiante storia della città dei calanchi.

Erano gli anni ’70 quando Massimo Di Febbo, trasformò l’osteria della nonna Carmela in ristorante. Le cantine, in Atri, erano abbinate alle chiese e durante la Settimana Santa, le donne si recavano alle celebrazioni, gli uomini entravano all’osteria per consumare soprattutto il vino (i liquori erano pochi). Quella di Carmela Di Ridolfo, moglie di Massimo senior, era abbinata alla Cattedrale e con la gastronomia c’era la vendita delle ceramiche di Castelli.

Massimo junior stava organizzando il coro folkloristico cittadino, la cui storia è stata recentemente ricostruita in occasione dei 40 anni del debutto, avvenuto al Comunale il 15 febbraio 1975, anche se l’atto di fondazione era avvenuto sei mesi prima, sempre avendo per riferimento la taverna di Piazza Duomo. Fu invitato il m° Antonio Di Jorio che tenne a battesimo, consegnando la bacchetta all’allievo Cav. M°Prof. Glauco Marcone, la neonata compagine canora, poi diretta dal Prof. Alfonso Bizzarri e quindi dal Cav. M° Prof. Concezio Leonzi, tuttora direttore e fondatore dell’archivio-museo e il maestro di Atessa, con la figlia Prof.ssa Pasquina, faceva i pasti nel ristorante “con gli archi”, per dirla con il geografo Giovanni De Sanctis, docente all’Università di Verona.

In Atri esisteva la campana della giustizia e ogni volta che un cittadino subiva un torto la suonava. Il bronzo, dopo tanti anni, era stato dimenticato e ricoperto dalle erbacce. Un cavallo, poco nutrito dal padrone, perché diventato vecchio, mosse la campana e il reo fu costretto fino alla morte del quadrupede a dargli la doverosa razione di fieno. La leggenda è ambientata al tempo del re Giovanni d’Acri, e per la somiglianza con la città degli Acquaviva, divenne subito di Atri. Se la storia l’avesse ascoltata Italo Calvino, l’avrebbe subito riportata su “Fiabe italiane”. Grazie al Museo Etnografico, con il suo fondatore Ettore Cicconi, la campana e il cavallo sono entrati nei lavori dei bambini della scuola elementare e punto d’arrivo è stata la rappresentazione, nel 1993, al Comunale. Nel 1996, la leggenda ha riguardato i grandi, grazie al Teatro Minimo con i solerti registi Alberto e Francesco Anello ed Elio Forcella, e grazie alla campana di re Giovanni, la cittadina ha avuto le due edizioni del corteo in costume, quando ormai gli atriani facevano fatica a rincorrere il treno di Orvieto, Spoleto e Bolsena, per la valorizzazione dell’immenso patrimonio medioevale. Il corteo, però, sottolineava il periodo acquaviviano, cominciato nell’ultima fase del Medioevo e terminato nel Secolo dei Lumi.

Senza entrare nella leggenda, la campana d’oro è un simbolo di Atri, perché avendo undici chiese in uno spazio relativamente piccolo, delimitato dalle antiche mura, intervallate da quattro porte, erano tanti i sacri bronzi. I silvaroli chiamavano gli atriani “sonacambane”. Le campane più celebri sono quelle della Cattedrale, elettrificate nel 1964, ognuna con un nome diverso. Le principali, alloggiate nella cella campanaria e visibili, hanno riferimenti topografici: Borea (Nord), Sole (Sud), Mare (Est) e Campanone (Ovest), dove la mole ha la precedenza sull’orientamento.

Massimo Di Febbo diede un taglio profondamente tradizionale alla taverna, con piatti semplici e genuini di Atri, come gli antipasti, la chitarra con sugo e polpettine, le virtù per il primo maggio, le scrippelle, il timballo e gli gnocchi di patate, in vernacolo “li surgitte”, mentre il dialetto teatino li chiama “gnuocchele”, rendendo locale la dicitura italiana del primo tipico del giovedì, in quanto, si mangiava un piatto sostanzioso pieno di energie per il venerdì, giorno di magro. Ovviamente gli gnocchi, conditi dal sugo di pomodoro, sono un piatto domenicale, perché solo a guardarli, esprime la festa.

Vasto il campionario dei secondi, con il cif-ciaf di maiale, l’agnello, il pollo e la trippa. Meravigliosi i contorni, con le verdure degli orti atriani e il dolce tipico della festa, la pizza, la spiegazione della locuzione latina “dulcis in fundo”. Cibi talmente meravigliosi da far ricominciare daccapo con l’antipasto un enologo abruzzese che alla frutta, si accorse di non aver assaggiato le salsicce atriane. Gli furono servite, ma non le volle consumare da sole e allora…invece del Cynar di Sandro Paternostro, il bis della cena. Fu un problema, a pochi minuti dalla mezzanotte, alzarsi dalla sedia, ma il giorno dopo si sentiva bene e ancora per diversi anni continuò le peregrinazioni culinarie.

A Massimo, in un secondo momento, subentrò Carmelina Cantarini Faiazza che proseguì con vigore la tradizione gastronomica atriana. L’antica architettura conferisce un senso di antico all’ambiente. Il cavallo fu realizzato dall’artista polacco Giorgio Sporys, trapiantato a Capo d’Atri, dopo l’ultima guerra mondiale, come diversi militari connazionali. Le opere in ferro, invece, hanno la mano e l’estro di Emidio Assogna.

Gli ultimi gestori della prima fase della storia della “Campana d’Oro”, Francesco Bosica e Altomare Giorgio, rispettivamente di Villa Bozza e Cerignola. I coniugi, provenienti da Torino, hanno due figli, Vincenzo e Daniele, quest’ultimo affermato artista, con esposizioni in tutta Italia. Con la gestione Giorgio, la taverna divenne anche pizzeria con gli sfiziosi cibi che gli fanno corona. E il momento più toccante nei pressi del ristorante, il 30 giugno 1985, la visita di S. Giovanni Paolo II.

SANTINO VERNA