Pubblicato Domenica, 24 Luglio 2016
Scritto da Santino Verna

UN NEGOZIO DI GASTRONOMIA, UN VIAGGIO NEI SAPORI  ABRUZZESI

MEZZO SECOLO DELLA CHITARRA ANTICA A PESCARA

Era il 1965, quando, in pieno centro, a Pescara, nasceva per volere del Prof. Giovanni Iannucci, già Sindaco di Città S. Angelo e illustre politico, con la passione della cucina, l’esercizio commerciale che risponde al nome della “Chitarra Antica”, portata avanti con sapienza e lavoro faticoso e quotidiano dai coniugi Giovanni Minicucci e Giuseppina D’Alonzo, rispettivamente di Orsogna e Montesilvano, emigrati in Belgio come tantissimi abruzzesi dopo il secondo conflitto mondiale. Ora il figlio Claudio, continua la serena tradizione, in un mondo globalizzato, bombardato dalla ristorazione veloce e dai punti vendita nei centri commerciali.

L’esercizio si trova in quello che può esser definito, anche se per nulla appropriato in una città moderna come Pescara, il “quartiere delle città d’Italia”, perché l’odonomastica è quella di città e regioni italiane. Nel caso del famoso negozio, è “Via Sulmona”, una piccola parallela di Corso Vittorio Emanuele, tra Via Roma e Corso Umberto, con vitalità tutto l’anno. Quella vitalità pescarese, lodata da Mario Santarelli e sottolineata dalla penitenza, nel corso di un pranzo, dell’elogio dell’Aquila a scapito della città dannunziana. Il giornalista sportivo, pronto alla facile battuta, sempre con signorile rispetto, diceva “Noi abbiamo il mare, voi tenetevi le pietre!”. E tutto finiva in fragorose risate.

Il nome della “Chitarra Antica” è un omaggio al celebre primo piatto abruzzese, peraltro non vincolato ad una città o un paese particolare. Se le “scrippelle” e le “virtù” sono tipicamente teramane e la “mugnaia” è della Valle del Fino, anche se rivendicata da Paglieta, la chitarra è di tutta la regione. Lo strumento che denomina la pasta all’uovo, veniva fabbricato soprattutto a Pretoro ed era presente in tutte le case abruzzesi, costituiva quasi una subunità della dote della sposa, portata nella casa del futuro marito, dove nasceva la famiglia, nei giorni precedenti lo sposalizio. Il tutto era accompagnato da un momento festoso, accentuato dall’assenza dei social, con tanto di rinfresco.

La chitarra, inoltre, non è un piatto legato ad un tempo o una festa del ciclo calendariale. Tornando ai piatti teramani prima menzionati, le “scrippelle” imbevute nel pesante brodo, tra le pietanze preferite di Marco Pannella, erano il primo dell’ultimo giorno di Carnevale, in quanto piatto grasso, mentre le “virtù”, dato che veniva fatto con i rimasugli della dispensa, all’arrivo della primavera, nel calendario abruzzese, il primo maggio. L’usanza pagana trovò la cristianizzazione nella festa dell’Invenzione della Croce, il 3 maggio, anche se in tempi recenti prevalse l’altra celebrazione di settembre. La chitarra, anzi, non era neppure un piatto propriamente domenicale, perché nel giorno del Signore, in famiglia era festa quando c’era la pasta “comprata”, forse perché rappresentava la novità. Quella “fatta in casa” era il pasto di tutti i giorni, condita dal sugo di pomodoro, vivacizzata dalle polpettine di carne, innevata dal formaggio grattugiato e insaporita dal peperoncino piccante, nella versione spezzettata o in quella sott’olio.

Alla “Chitarra antica”, oltre ai “maccheroni alla chitarra”, italianizzazione del vernacolare “maccarune carrite”, dove la specificazione si riferisce al “carrature”, il telaietto dove viene stesa la sfoglia, si aggiunge quella che era definita “pasta comprata” e l’Abruzzo è maestro nella tradizione. Dal 1886 a Fara si fabbrica pasta industriale, elogiata da Gabriele D’Annunzio, certamente non un ghiottone, ma amante della buona cucina, il quale voleva gli spaghetti faresi alla Capponcina, nella periferia elitaria di Firenze, dove incantava gli intellettuali italiani e stranieri, a dispetto dello sfacciato accento abruzzese. L’Orbo Veggente ogni tanto si recava a Fara, anche per gustare la sua pasta, e lo faceva in compagnia di Francesco Paolo Michetti, imparentato con i Ricci della vicina Casoli. L’altra compagine, pilotata dagli umanisti Cesare De Titta, Ireneo Tinaro, Luigi Illuminati e Modesto Della Porta, andava invece nella casa del farmacista Ovidio Alleva e il complemento erano naturalmente i liquori a base di erbe della Maiella.

Imponente il reparto di formaggi e salumi, meravigliosi non solo da gustare, ma pure da ammirare. Un posto particolare è il pecorino di Atri, di solo latte ovino. Forse lo avrà gustato anche il Vate, nella cui opera la città degli Acquaviva non è menzionata. Tra i salumi le mortadelle di Campotosto e il prosciutto stagionato di montagna, quello che si taglia in modo spesso.

La parte dedicata ai dolci è ovviamente cospicua, perché l’Abruzzo è in prima fila per le carezze del palato. In primis, anche nella confezione floreale, il parrozzo, e né poteva essere altrimenti, nella città di questo dolce, originariamente servito solamente a Natale, e nel periodo che gli fa corona. Ma ora nella pratica variante dei “parrozzini”, il dolce in piccolo formato, confezionato nell’involucro. Gabriele D’Annunzio ne era ghiotto, ma forse solo sulla carta. Ne è prova il fisico asciutto e sportivo, come possiamo vedere nelle foto, nella casa di Corso Manthonè, monumento nazionale e sui libri. La “Chitarra Antica” vende pure le “neole”, farcite con marmellata d’uva, tipico dolce dei ricevimenti nuziali. Dal ciclo biologico, fu breve il passaggio a quello dell’anno. La dicitura, tipicamente atriana, riguarda un dolce diffuso in tutto l’Abruzzo settentrionale, perché nella parte Citeriore, abbiamo le “pizzelle”, versione più morbida. Entrambe si confezionano con un “ferro”, reperibile nei mercati locali, sempre oggetto dotale, e personalizzato con le iniziali del capofamiglia (nome e cognome), in luogo del mancante emblema del casato e funzionale perché poteva essere ereditato da uno dei nipoti, secondo la felice e doverosa consuetudine di imporre il nome dei nonni, per la dolce carezza della memoria. Per estensione, nell’alveo dei dolci, la liquirizia di Atri, con la tradizione risalente ai Domenicani del convento di S. Giovanni, il cui chiostro, contiguo all’omonima chiesa, è integrata nella storica fabbrica. Il fumacchio che la sormonta, è l’alter ego civile della torre di S. Domenico e il profumo di liquirizia è il piacevole sottofondo olfattivo del rione, oltre ad essere per certi versi un indizio di previsioni metereologiche per Atri.

Non vengono dimenticati i vini, bianco, rosso e cerasuolo. L’Abruzzo è una regione vinicola, e questo lo sa benissimo Fausto Celestini, viterbese di nascita e pescarese di adozione, il quale in una cena stupì tutti i commensali, perché riconobbe in un attimo il vitigno e il vino. Qualcuno si pensò che si era messo d’accordo qualche tempo prima con il padrone e invece sbalordì tutti. Ma forse confermò l’amara constatazione che gli abruzzesi non amano a sufficienza la terra d’origine. E non solo riguardo alla gastronomia, ormai globalizzata e dribblata per l’imperante mentalità ortoressica.

Tra la stazione, il mare, il palazzo della Fondazione Caripe e la chiesa del Sacro Cuore, dove uno stabile in Via Firenze ha le formelle di Serafino Mattucci, vi è ancora un negozio di gastronomia, nel pieno ossequio della tradizione abruzzese, fresco di nozze d’oro con la città.

SANTINO VERNA