Pubblicato Lunedì, 02 Maggio 2016
Scritto da Alfio Carta

IL MONDO D’OGGI IN CRISI  ECONOMICA E ISTITUZIONALE

BELLO ESSERE NATI  NEGLI ANNI ‘ 30

Ogni generazione si sente un po’ vittima e un po’ benedetta. Ma quale è stata la più fortunata?  Conta di più la sicurezza economica o l’assenza di confini e limiti? Meglio un mondo a portata di Iphone o la gioia di andarsene in giro di notte senza rischiare scippi e rapine?  Il dibattito è infinito e le “fazioni” in gara sono tante quante le generazioni. Chi è nato tra gli anni Trenta e Quaranta ha passato un’infanzia dura, tra le privazioni della Seconda guerra mondiale. Ma poi ha vissuto il meglio di questa Italia. Lavoro facile, stipendi alti, stabilità politica, benessere e l’ottimismo che ha permesso al Paese di uscire dal dopoguerra e di essere di diritto tra i grandi della Terra. Neppure il terrorismo degli anni di piombo minò quel senso di benessere. Perché quella generazione era (quasi)  compatta nel condannarlo, mentre oggi davanti  all’Isis non facciamo che dividerci.

Correva l’anno 1951 quando io, già laureato, praticante notaio e avvocato, abbandonai capricciosamente lo studio legale del compianto Nicola Mattucci perché sospinto non dalla visione di una meta seducente, ma da una  profonda, forte, istintiva e irrefrenabile vocazione  per la carriera amministrativa, senza  però smettere di compulsare le pandette presso studi legali di Roma, dove mi trasferii pur contro le insistenti pressioni familiari perché rimanessi in Atri. Allontanarmene è stato doloroso, non è così facile: il paese natale, pur nella sua sacralità, non è  però il luogo dove resti pietrificato una vita e nemmeno il luogo che abbandoni e cancelli; ti resta per sempre irraggiungibile ma sempre vicino nella sua lontananza, ed io infatti non me ne sono mai realmente allontanato.  Ho sempre e molto studiato.  Emiliana, allora mia fidanzata, mi vedeva solo la sera  alle 19,30, quando la bibliotecaria mi invitava cortesemente ad uscire per l’ora di chiusura. Dotato di una buona cultura umanistica e giuridica,  partecipai a cinque concorsi direttivi e per fortuna li vinsi tutti con la soddisfazione di raggiungere in tutte le competizioni il primo posto. Potevo quindi scegliere le sedi di  lavoro. Mi sentivo attore spacchettato in un vasto orizzonte di possibilità di lavoro. Prima alla Presidenza del Consiglio con l’incarico di dirigere, ancor giovanissimo,  una  Rappresentanza provinciale a Chieti, poi ad un Commissariato di Novara, quindi alla Direzione Generale SIAE a Roma vicino alla fidanzata, che poi sarà mia moglie, abbandonando così l’idea di  lavorare nei due Ministeri residui relativi agli altri due concorsi pure vinti. Non ho più cambiato lavoro ed in quello scelto ho raggiunto una posizione di vertice senza raccomandazioni. Allora non usava, salvo casi veramente eccezionali. Ho percorso tutta la carriera, che non è così agevole come potrebbe sembrare, tutt’altro,  arrivando poi serenamente alla pensione, senza che mi cambiassero le regole in corsa e mentre i progressi  della medicina continuavano a regalarmi anni di vita, e per alcuni duri malanni, direi di sopravvivenza, cosa che i miei genitori non si sognavano neanche.  Ho avuto cioè una esistenza, temo, pressoché irripetibile nel nuovo millennio, oggi, ma ancor più domani. Se la racconto a uno dei tanti cinquantenni che, una volta disoccupati, non trovano più nessuno che li vuole, o ai milioni di giovani che, diplomati  o laureati, restano disoccupati per anni e alla fine avranno pensioni dimezzate rispetto alle nostre, quasi non ci credono. Invece, con le dovute eccezioni di chi è rimasto indietro, viveva nel posto sbagliato o ha deciso di emigrare, negli anni del cosiddetto miracolo questa era la norma.

E non sono stato solo io l’eccezione, tutti i giovani di buona volontà hanno trovato sfogo occupazionale, sia pure con i necessari sacrifici, nei vari rami lavorativi che il sistema offriva: nella magistratura, nell’artigianato, nella scuola, nella sanità, nella pubblica amministrazione e all’estero dove tutti hanno trovato degna sistemazione  e così via.

Perciò – come credo capiti a tanti altri  nati negli  anni Trenta e Quaranta e ormai avviati a fine corsa – sono arrivato ad una conclusione, che  mi piacerebbe aprisse un dibattito:  la nostra è stata la generazione più fortunata della storia d’Italia, quella che ha attraversato il suo periodo più fruttuoso, stimolante e probabilmente irripetibile. Siamo quelli che hanno ricostruito il Paese dopo i disastri di una guerra da cui siamo stati appena sfiorati;  quelli che hanno, nel bene e nel male, sperimentato la democrazia prima che la corruzione la intaccasse; quelli che erano già in campo quando la lira vinceva l’Oscar delle monete e che, pur con qualche sussulto hanno vissuto un periodo di crescita ininterrotta, in cui ci siamo trasformati da Paese agricolo nella settima potenza industriale del mondo, l’80% degli italiani sono divenuti proprietari della loro casa e l’automobile ha preso il posto della bicicletta;  quelli che hanno vissuto il periodo d’oro dell’Europa, oggi diventata per molti una matrigna; quelli per cui l’immigrazione era ancora una risorsa e non un problema e nessuno si  angosciava per l’effetto serra. Soprattutto siamo stati i protagonisti di un periodo in cui c’erano più fiducia, più speranza, più ottimismo: eravamo convinti (o con il senno di poi illusi) che nonostante tutti gli ostacoli, il benessere e la qualità della vita fossero destinati a migliorare ulteriormente.  Oggi, stando ai sondaggi e agli scambi di opinione con la gente, nonostante le sparate di Matteo Renzi su una presunta rinascita, molti italiani non la pensano a questo modo sul  loro futuro;  invece prevedono  (non a torto guardando certe classifiche internazionali, come la produttività o il livello di corruzione) che il Paese sia destinato ad un progressivo declino.

Certo, abbiamo passato anche noi i nostri guai, sia sul piano interno che su quello internazionale.  Ci sono stati conflitti anche sanguinosi, in Medio Oriente, in Vietnam, in Africa e soprattutto c’era la guerra fredda tra i due blocchi, basata sull’equilibrio del terrore: ma noi ne siamo stati toccati solo marginalmente e mai (con l’eccezione della crisi di Cuba), abbiamo avuto quella sensazione di ingovernabile instabilità globale che ha indotto Papa Francesco a parlare addirittura di Terza Guerra mondiale. Abbiamo avuto gli anni di piombo, con i due terrorismi paralleli rossi e neri che hanno fatto centinaia di vittime e ci hanno fatto vivere nella paura, ma, guardandoli in una prospettiva storica, li abbiamo superati con una compattezza e una capacità di reazione che ci hanno ammirato anche all’estero e che oggi, in cui la minaccia viene dall’estremismo islamico, capita spesso di rimpiangere. Abbiamo avuto le nostre crisi finanziarie, culminate con la grande svalutazione della lira, la rapina dello 0,6% sui conti correnti e la gente che portava in massa i soldi in Svizzera, ma non ricordo un periodo di incertezza e di confusione lungo come quello che le generazioni più giovani stanno affrontando in questo momento. Abbiamo sofferto degli stessi mali di cui ci lamentiamo oggi, dall’inefficienza della burocrazia alla diffusione della malavita, dalla lentezza della Giustizia agli sprechi di Stato, ma dal momento  che “la barca andava”, ci sembravano forse più tollerabili di oggi. Abbiamo avuto Tangentopoli e tutto quello che ne è seguito, ma allora si sperò, almeno in una prima fase, che servisse a risanare il sistema, mentre oggi dobbiamo constatare ogni giorno che, nel fondo,  non è cambiato nulla e per di più la gente mi pare quasi rassegnata.

C’è chi preferirà senz’altro guardare l’altra faccia della medaglia. Per esempio, la nostra generazione ha beneficiato solo tardi degli straordinari progressi tecnologici che oggi fanno girare il mondo, e qualcuno si sente handicappato rispetto ai giovani che vivono di Facebook, tablet, App…  Per esempio, dai tempi della nostra giovinezza il costume si è evoluto in una direzione, nel suo complesso, positiva,  rendendo più facili i rapporti tra i sessi e la vita di relazione. Ma mettendo il tutto sui due piatti della bilancia, rimango persuaso che penda a nostro favore. Naturalmente con l’augurio di sbagliarmi, per il bene dei nostri figli e dei nostri nipoti.

Alfio Carta