Un capolavoro di arte e di fede

LA CROCE IN CRISTALLO DI ROCCA IN ATRI

Nell’azione liturgica del Venerdì Santo, uno dei momenti più toccanti è legato alla croce. Per questo è bene ricordare una delle tante croci, presenti nella città degli Acquaviva. La croce più famosa è quella in cristallo di rocca (XIII sec.), di scuola veneta, nel Museo Capitolare. Qui non parliamo di una croce presente in chiesa o esposta per i fedeli, ma di un grande capolavoro d’arte.

Destinata per la chiesa di S. Francesco, e al suo convento minoritico che già nella prima metà del XIII sec. era uno dei luoghi più importanti in Abruzzo per l’Ordine Serafico, con il simbolismo del cristallo di rocca evocazione del sangue e dell’acqua sgorgati dal fianco squarciato del Cristo, immagini dell’Eucarestia e del Battesimo, ovvero dei Sacramenti, la croce fu successivamente trasferita in Cattedrale. Si può dire che è all’origine della nascita del primo nucleo del Museo Capitolare.

Nel 1907, infatti, in occasione della commemorazione di Giuseppe Sacconi, legato al restauro della Basilica della S. Casa di Loreto, alcuni illustri visitatori giunsero in Atri, temporaneamente vincolata alle Marche per via della geografia delle sovrintendenze di allora. Tra questi lo storico dell’arte ravennate Corrado Ricci, il quale fu accolto in Cattedrale dal giovane canonico Raffaele Tini, Arcidiacono del Capitolo. Con lui il ruolo dell’Arcidiacono in Atri assunse un certo prestigio, in quanto nel 1912, il Vescovo Carlo Pensa, stabilì Penne come residenza abituale del Vescovo. In teoria la residenza era sei mesi a Penne e sei ad Atri, per la clausola della perfetta uguaglianza, e in un certo periodo, molto breve, i mesi erano ridotti a quattro, perché si doveva ritagliare pure un lasso per Città S. Angelo. Gli angolani, o “civitaresi”, avrebbero voluto allungare il quadrimestre, ma rimasero con un pugno di mosche in mano, dopo l’episcopato di Amico Bonamicizia. Il desiderio della sede vescovile per Città S. Angelo è vivo perfino oggi.

Facevano corona a Don Raffaele, i canonici Casimiro Filiani, Aristotile Pacini e Pasquale Pavone. L’accoglienza civile fu compiuta dall’allora Sindaco Luigi Vinditti, affiancato dall’Assessore Dott. Giovanni Pacchioli. Ospite della casa del cognato Luigi Giardini, fratello del canonico Antonio, economo del Seminario, ebbe modo di conoscerne il cugino, l’archeologo Felice Barnabei, castellano di nascita, ma atriano di adozione, perché visitava quando poteva la cittadina dei calanchi e sempre si adoperò per la promozione culturale di Atri. Per parte di madre era originario di Mutignano, come ricordava il Dott. Loreto Tini, custode della memoria dello zio Raffaele.

Il Canonico Teologo Casimiro Filiani è ricordato quasi solamente dal tumulo nella spartana cappella di famiglia, nel camposanto di Atri. Apparteneva ad una delle famiglie facoltose del paese. Don Aristotile Pacini, nativo di Colle Val d’Elsa, il cui seminario ospitò il giovanissimo Carlo Lorenzini, l’autore di “Pinocchio”, e nella cittadella di Collodi si recò recentemente un piccolo gruppo di atriano, come epilogo di un breve viaggio in Toscana. Don Pacini è ricordato soprattutto per l’eponima schola-cantorum, fondata nel 1987 dai fratelli professori, Carmine e Concezio Leonzi. Prima del battesimo di quest’istituzione culturale e musicale, il ricordo era tenuto vivo da Francesco Giacintucci.

Il Canonico Pasquale Pavone fu il sacerdote che più si adoperò per la promozione della croce in cristallo di rocca. Rischiava di finire fuori Atri, e grazie al suo intervento non solo rimase nella Cattedrale, ma suscitò grande interesse negli intellettuali e nella gente comune. E l’acme fu la fondazione del Museo Capitolare, per volere dell’Arcidiacono Tini nel 1912. Il giovane sacerdote, vicino di casa di Don Luigi Illuminati, e suo alter ego, non aveva intenzione di realizzare un grande museo. Voleva farne un “museino”, per dirla con lo storico dell’arte Giancarlo Gentilini, il massimo studioso dell’opera robbiana, già docente a Lecce e Perugia di storia dell’arte moderna (la dicitura della disciplina non deve trarre in inganno, perché per “moderna” i profani intendono la contemporanea, quella che va, diciamolo con le parole di Caterina Zappia, dall’arte neoclassica a…questa mattina).

Nel 1927 la croce fu menzionata da Pietro Toesca, uno dei massimi storici dell’arte italiana. Il suo poderoso manuale rimane un evergreen delle discipline storico-artistiche, amato da un suo grande ammiratore, Pietro Scarpellini Pancrazi, docente di Storia dell’Arte Medioevale all’Università degli Studi in Perugia e uno dei fondatori locali di “Italia Nostra”.

La croce in cristallo di rocca è uscita due volte dal Museo Capitolare, in occasione di mostre: la prima a Roma nel 1986, la seconda a Venezia nel 1994-95. Alcuni atriani si recarono addirittura a Roma e a Venezia per rivedere il più famoso cimelio del Museo, approfittando rispettivamente di visitare la città eterna che non si finisce mai di ammirare o fare un week-end sulla Laguna. Quell’anno oltre al ricordo dell’arrivo delle reliquie di S. Marco Evangelista, custodite sotto l’altar maggiore della Basilica (dove nel XX secolo hanno poggiato le mani tre Santi Patriarchi, due canonizzati, Giuseppe Melchiorre Sarto e Angelo Giuseppe Roncalli, e il Ven. Albino Luciani), c’era pure l’VIII centenario della nascita di S. Antonio di Padova, avvenuta a Lisbona, secondo la tradizione, il 15 agosto 1195. L’anno sembra il più attendibile, perché aveva 36 anni, quando incontrò sorella morte. Gli atriani, pur sorvolandola quando si trovano in città, o ammirandola assieme a qualche ospite illustre, vollero vedere la croce “in trasferta”.

La croce in cristallo di rocca nella sistemazione definitiva ha vissuto due guerre mondiali, con tutti gli annessi e connessi, una guerra fredda, il miracolo economico, un museo sempre più attenzionato e incrementato da divenire l’alter ego della Cattedrale e non più la naturale appendice, come era forse nel progetto dell’Arcidiacono e nella mente degli atriani.

SANTINO VERNA