Pubblicato Lunedì, 07 Dicembre 2015
Scritto da Gioele Scordella

L'AUTENTICO SPIRITO ATRIANO DI UNA FESTA CHE CAMBIA

I FAUGNI AI TEMPI DELLE NUOVE GENERAZIONI

L’approssimarsi dei Faugni riaccende le solite polemiche riguardo il modo attuale di vivere la nottata.

“Ah, bei tempi quelli di una volta, quando si stava con i parenti a fare la tombola!”

“Dio mio, che scempio questa notte così affollata!”

Qualcosa è cambiato, è vero.

Di ciò che la notte dei Faugni doveva essere un tempo io, nemmeno ventenne, posso sapere solo dai racconti dei nonni e di mamma. Ho iniziato a vivere la festa quando, già un poco grandicello e con l’accompagnamento dei sempre fedeli alla patria zii e cugine, la nottata moderna aveva già preso piede, ché come noto prima si usciva dalla porta di casa solo quando del corteo infuocato era imminente la partenza.

Sono giovane, sono calato nel mio tempo, tutto questo mi condiziona nel dire che quasi nulla di disdicevole ho trovato nei Faugni dei tempi moderni.

Non c’è più il caldo raccoglimento domestico di una volta, eppure per noi giovani, perlomeno per quelli che sanno equilibrare euforia e coscienza della tradizione, il richiamo della festa è sempre vivo. Un richiamo che proprio grazie a noi ragazzi supera le mura di Atri per giungere fin verso Pescara, fin verso Teramo, finanche nelle grandi città tramite gli universitari. Lo studente fuori sede saggia le sue radici atriane nella forza di tornare, nonostante studio ed esami, dalle lontane plaghe dove è approdato, scoprendosi piccolo promoter nel portar dietro di sé lo stuolo di coinquilini e compagni di quelle metropoli che han quasi perso le loro tradizioni.

Non c’è più il caldo raccoglimento domestico di una volta, ma questo raccoglimento non doveva essere così ristretto se consideriamo che fino a non molto tempo fa si considerava parentela stretta fino al terzo o quarto grado.  Mia madre e suo fratello raccontano di raduni conciliari nella loro casa d’infanzia, dove si beveva e l’ebbrezza c’era, sebbene moderata per la presenza di bambini.

Quell’appartamento è oggi vuoto. La malattia del benessere ha contagiato anche i miei nonni, trasferiti come tanti atriani fuori dalla vecchia città.

Niente più persone, niente più mobili; le stanze guardano solitarie il fianco ombroso di san Francesco, sopra il forno di Delina, da un lato, mentre dalla parte opposta una camera con vista s’apre dritta dritta sul campanile del Duomo.

Rifugio solitario delle mie primavere e delle mie estati, ostello di qualche intimo amico che accedendo in quella casa è come se accedesse in me.

Sono silvarolo per cognome, ma figlio di Atri attraverso mia madre, della razza di Beppino Iezzi, Beppe la guardia. Casa mia, come non l’ho mai sentito altrove, è in quell’appartamento, sospeso nei miei ricordi tra sogno e realtà. Sono un atriano bastardo, perché solo un genitore me ne ha trasmesso il sangue, ma dentro quella casa si riaccende il senso dell’appartenenza, sì sono uno degli atriani, e di quelli privilegiati, quelli di città. Si perpetua in me il senso delle tradizioni cittadine, grazie a me quella casa, per quella nottata pagana dell’Immacolata, alla luce dei mutati tempi, torna ad essere quella che doveva essere quando la carne da cui discendo l’animava.

Per i Faugni un’orda euforica di ragazzi, carichi di provviste, riempie allo stremo quelle modeste stanze.

Ci si bacia, ci si abbraccia, si scherza, si pettegola, si mangia, si beve, un grande baccanale che per dodici ore ricompone odi e rancori perché nulla di male può ostacolare una festa.

Non è vero che il giovane atriano non conosce la tradizione, non è per nulla vero.  Nella Babele di quella notte si fa la differenza tra l’atriano di città e tutti gli altri, dall’atriano delle contrade agli amici degli altri paesi. L’atriano di città è alla guida del suo gruppetto, è quello che conosce tutte le strade, tutti i locali, gli eventi della serata, i vari momenti della festa, che spiega il perché di un evento così grande nel periodo freddo e di notte per giunta. L’atriano di città è quello che resiste imperterrito fino alla fine, mentre molti suoi compagni di fuori già alle quattro non hanno più le forze e alcuni si stendono a dormire: rispetto i limiti orari della festa, dalle sette di sera alle sei di mattina, una delimitazione apparentemente banale che demarca quel momento in cui Atri, per una notte che notte bianca non è proprio per questo, esce fuori dal tempo, torna all’epoca di antichi Baccanali.

La finestra dritta dritta sulla Cattedrale non è mai chiusa durante la notte, è quello il ponte che ci collega con quanto avviene all’esterno.  La molle illuminata della torre di santa Maria emerge dal buio come un dragone goticheggiante e respira il fumo scintillante che s’alza dal basso in ghirigori via via più sfumati. Dalla camera con vista giungono profumi infuocati, le grida ebbre e maschie “Li Faëgne!”, i rintocchi del Duomo. E quando le grida s’alzano sempre più corali e Santa Maria si aggiunge lanciando a distesa tutte le campane, quello è il momento: lasciando tra le risa i deboli addormentati, i forti escono di casa per andare in piazza, previa eventuale sosta al forno di Delina.

Ogni anno l’antico rito si rinnova come se fosse la prima volta di fronte agli occhi nostri che tutto sanno della festa eppure ammiccano come bambini a quelle canne alzate al cielo.

Infantile è il gesto di chi si sporge per veder qualcosa che ormai già sa, per farsi abbronzare dalla calura di quel Sole notturno che gira, sì gira, solo intorno ad Atri. Eccoli, i Faugni, si inchinano, si accendono, si dispongono in fila, la banda attacca. Già si dirigono verso santa Reparata. Non si segue tutto il corteo, ma cantando come forsennati e a tutta potenza le note della marcia, quasi inno patriottico, ci si sposta per trovare i punti migliori del corteo. Si scende alle Poste, alla piazza di san Pietro, poi si sale verso il Comune. E mentre i Faugni girano verso Capo d’Atri, noi ebbri freneticamente torniamo a piazza Duomo per occupare i primi posti all’inizio perduti.

Santa Maria grida ancora il canto dalla bocche della torre, e i Faugni alle sei ricompaiono dall’angolo della Banca. S’inchinano un’ultima volta di fronte ai portoni sacri della Cattedrale, ma non si rialzano, muoiono in unico grande falò, lo stesso da cui erano stati accesi un’ora prima. Per quasi un’ora quel fuoco brucerà ancora, ma ormai la festa volge al termine, si torna alla normalità. I Satiri e le Baccanti di quella notte tornano ad essere ragazzi e ragazze comuni. I deboli in casa si alzano, i forti rientrano, iniziano i saluti, ognuno torna nelle proprie case.

Ma ancora per qualche ora il forte atriano, quello di città, non perde l’allegria. Lui non conosce limiti tra le giornate del sette e dell’otto Dicembre: sono un unico giorno, vissuto all’insegna della notte. Le ore diurne che seguono la nottata sono infatti occupate dal sonno e quando ci si sveglia il sole è già tramontato: alle 19 (che coincidenza!) ci si dirige di nuovo verso il Duomo, perché Maria esce incoronata a visitare quelle stesse strade già percorse dal fuoco, quasi a consacrarle, e al suo rientro le Pupe infuocate (fuoco, fuoco, fuoco, sempre fuoco!) concludono finalmente la festa della Madonna. Solo allora l’atriano si mette l’anima in pace: sì, la festa è finita. Per una settimana non si parlerà di altro. Ognuno riprende la sua normale routine, giusto due settimane prima dell’arrivo del Natale.

Finite le Pupe, dalla piazza del Comune torno ancora un attimo in quella casa che solo poche ore prima erano state il centro di un mondo. Dalla camera che s’apre dritta dritta sul Duomo si vedono le campane che tremano, sono i postumi di quella lunga festa passata sempre a cantare. L’aria gelida sa ancora di fuoco. I miei vestiti sanno ancora di fuoco. La casa sa di fuoco. Le mie occhiaie fanno quasi lo strascico per quanto sono grandi. Un sospiro prima di chiudere tutto. Acqua, luce, gas, tutto a posto. Si gira la chiave nella toppa. Papa e mamma ormai non commentano più il mio stato perché sono abituati.

Fra un anno tutto si ripeterà da capo come se fosse la prima volta. E qualche mio compagno ancora non tornato alla vita normale, qualche audio me lo manda e, nella tranquillità della mia casa a Silvi, si sente gridare: “Li Faëgne!”.

Gioele Scordella